Da oggi il DDL edilizia è legge regionale, è una pessima norma, che
presenta diversi elementi di illeggitimità, che favorisce ancora una
volta la speculazione edilizia a discapito ancora una volta della nostra
vera ricchezza: i beni comuni, e i beni culturali e paesaggistici.
L'economista "smemorato" ha sottoscritto una norma priva di "sostenibilità economica" che ancora una volta aggredisce il territorio e distribuisce volumetrie prive di qualsiasi logica urbanistica.
L'economista "smemorato" ha sottoscritto una norma priva di "sostenibilità economica" che ancora una volta aggredisce il territorio e distribuisce volumetrie prive di qualsiasi logica urbanistica.
Sull'argomento riportiamo un'articolo di Maria Paola Morittu pubblicato
su Eddyburg la settimana scorsa
11 Aprile 2015.
Se la Toscana sorride, grazie
a Marson, Rossi e Franceschini, la Sardegna piange. Il primo
piano paesaggistico del Codice dei beni culturali
e del paesaggio è distrutto dal nuovo "piano casa",
peggiore di quello berlusconiano di CappellacciC’era una volta un
economista molto attento ai temi ambientali. E c’erano anche - queste per la
verità ci sono ancora - persone molto distratte. Per l’esperto, dunque, non era
facile far comprendere - neppure ai propri studenti - l’importanza, soprattutto
economica, dell’uso conservativo delle risorse naturali. Il professore, però,
non si arrendeva e continuava a ripetere che “i grandi investimenti immobiliari
lungo numerosi tratti delle coste sarde sono interventi irreversibili e
consumano in modo definitivo e particolarmente alto la natura nella quale si
situano”. Per il bene comune era troppo importante che tutti capissero come
“ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico
della risorsa (strutture ricettive, per esempio) ne determini un “consumo”
irreversibile, e di conseguenza la qualità ambientale, l’attrattività del suo
scenario naturale diminuisca”.
In principio l’economista provò con la metafora del
pastore: un esempio utile per tutta la popolazione visto che le pecore in
Sardegna sono di casa da molto più tempo dei turisti. Richiamando la nota
analisi di Hardin, identificò la proprietà comune di una risorsa naturale con
un pascolo a disposizione delle greggi di tutti i pastori, ognuno con gli
stessi diritti. E’ ovvio, ha spiegato l’economista, che tale situazione risulta
sostenibile solo se le pecore consumano una quantità di erba pari al suo
livello di crescita: in questo modo, non si impoverisce il pascolo e non si
intacca il foraggio per il futuro. Se le greggi consumassero una misura
superiore di erba, viceversa, la disponibilità diminuirebbe con un grave e
irreversibile impoverimento del pascolo.
Ma perché questo dovrebbe accadere? Non dovrebbe essere nell’interesse di tutti comportarsi in modo da evitarlo? Nella risposta a questa domanda - avverte il professore - c’è l’essenza di quella che viene chiamata la “tragedia dei beni comuni”. Guardiamo la situazione con gli occhi di un singolo pastore, ha poi spiegato. Per lui portare qualche pecora in più al pascolo significa guadagnare di più, perché poche pecore trovano maggiori quantità di erba. Anche nel caso in cui il nostro pastore fosse meno egoista - ha osservato lo studioso - potrebbe comunque, convincersi che qualche altro lo sarà e quindi, tanto vale comportarsi nello stesso modo. Il pastore, dunque, aumenterà i propri benefici, creando un effetto negativo per gli altri pastori. Tale effetto negativo si chiama esternalità - ci insegna l’economista - perché i costi così provocati ricadono sugli altri e non sono pagati da chi li causa. Portando al pascolo più pecore per guadagnare di più il singolo pastore crea una situazione che da sostenibile diventa insostenibile, ma in assenza di un’autorità regolamentatrice nessuno può imputare al responsabile il costo causato da questa azione. Così ognuno verrà condotto ad agire in modo egoista, portando alla rovina collettiva: tutti aumenteranno lo sfruttamento e il pascolo sarà consumato completamente. Questo esempio, conclude l’esperto, “ha diverse applicazioni in molti campi dell’economia ambientale, compreso quello dello sviluppo turistico di una località dotata di particolari bellezze naturali e consente di individuare i meccanismi politico affaristici che spesso, in Sardegna, hanno permesso la realizzazione di interventi simili all’eccessivo sfruttamento del pascolo, in nome di una loro ipotetica (e quasi sempre del tutto ingiustificata) capacità di contribuire a risolvere il problema della disoccupazione”.
Il discorso è logico, la metafora chiarissima, eppure
niente da fare, nessuno comprende, le vie Gluck si moltiplicano e tutti
continuano a costruire case su case. E non lasciano l’erba. Peggio molto peggio
delle pecore del pastore egoista.
Ma il professore, tenace, non si arrende e confidando
in un risveglio degli intellettuali ricorda “un risultato classico
dell’economia dell’ambiente [Krutilla e Fisher (1975)], non sempre” -sottolinea
- “tenuto nella dovuta attenzione dalle autorità competenti in materia di
sviluppo turistico”. Da tale studio emerge che “quanto più si hanno motivi per
ritenere che le preferenze dei consumatori premieranno in futuro l’alta qualità
ambientale del prodotto turistico, tanto più diventa necessario essere
estremamente prudenti in materia di sviluppi turistici ad alto consumo
irreversibile della risorsa ambientale”. Il turismo sardo degli ultimi decenni,
viceversa, “basato in gran parte sulla costruzione di seconde case spesso con
alto impatto paesaggistico negativo, ha ignorato troppe volte ogni ragionevole
criterio basato su qualche definizione chiara e riconoscibile di sostenibilità
economica. E ci sono casi in cui la miopia o un alto tasso di sconto di
rendimenti futuri possono indurre allo sfruttamento eccessivo della risorsa
anche imprenditori seriamente intenzionati ad associare i propri destini
economici con quelli della località turistica in cui decidono di investire”.
Questa è l’ultima spiaggia, ha decretato, infine, in un saggio di successo l’economista e “l’unica soluzione è che esista una autorità riconosciuta, che sia capace di coordinare le azioni degli individui, offrendo incentivi e impartendo sanzioni per coordinare il comportamento di ognuno in modo da ottenere l’uso ottimale aggregato della risorsa”.
Questa è l’ultima spiaggia, ha decretato, infine, in un saggio di successo l’economista e “l’unica soluzione è che esista una autorità riconosciuta, che sia capace di coordinare le azioni degli individui, offrendo incentivi e impartendo sanzioni per coordinare il comportamento di ognuno in modo da ottenere l’uso ottimale aggregato della risorsa”.
Questa volta il professore, seppure dopo molti anni e
a prezzo di diversi piani casa, non è rimasto inascoltato. Alcuni cittadini,
che nel frattempo avevano imparato la lezione, hanno avuto un sussulto e
l’hanno eletto presidente della regione, riconoscendo proprio in lui l’autorità
che deve garantire “l’uso ottimale aggregato della risorsa”, l’unica che
possediamo. Con la nascita del politico, però, l’economista è rimasto vittima
di uno strano sortilegio e ha perso completamente la memoria. Non solo. E’ stato
invaso da una vera e propria smania di consumo. E ha deciso che subito,
immediatamente, qui e ora, si deve consumare tutta, ma proprio tutta, quella
risorsa ambientale che per anni aveva difeso in modo strenuo e disperato.
Inutilmente abbiamo cercato di fargli comprendere, usando le sue stesse parole,
che “il risultato delle analisi di Krutilla e Fisher è fondamentale, perché
conferma che - nell’alternativa tra conservare una risorsa naturale con valore
ambientale in sé o invece usarla come input di un processo produttivo che la
consuma - l’incertezza sulle preferenze delle generazioni future, aumenta la
possibilità che la scelta economica ottimale per l’intera società sia quella a
favore della conservazione della risorsa naturale”.
E che proprio questo “è il motivo per cui imprenditori anche molto “avidi”, anche molto poco sensibili alle bellezze naturali, possono scoprire la convenienza economica di preservare la qualità della risorsa che attrae i turisti e che non è rinnovabile”.
E che proprio questo “è il motivo per cui imprenditori anche molto “avidi”, anche molto poco sensibili alle bellezze naturali, possono scoprire la convenienza economica di preservare la qualità della risorsa che attrae i turisti e che non è rinnovabile”.
Ancora increduli gli abbiamo ricordato di quando
sosteneva che “le analisi di tipo “costi-benefici” utilizzate in Sardegna per
decidere il rendimento di un investimento di sviluppo turistico hanno ignorato
questo fondamentale risultato, con la conseguenza che è stata spesso data via
libera a progetti che si sono dimostrati economicamente insostenibili”. Non c’è
stato verso. Questi progetti “economicamente insostenibili” devono crescere
fino al 25 per cento. Un quarto del volume esistente. Non solo alberghi,
resort, prime, seconde e terze case, ma anche capannoni industriali e in misura
minore, centri commerciali. Centinaia e centinaia di milioni di metri cubi. E
poco importa se si trovano in centro storico, in area vincolata o all’interno
dei 300 metri dal mare o dagli stagni. E se sono incostituzionali e contrari
all’ottimo Piano Paesaggistico. Così sarà. Lo stabilisce un disegno di legge su
un nuovo Piano casa che avrà durata illimitata, ed è in corso di approvazione
nel Consiglio regionale.
Abbiamo cercato di fermare questa folle frenesia,
ricordando la presenza di leggi europee e nazionali che impediscono la
realizzazione di un numero imprecisato di interventi senza calcolare gli
effetti che questi produrranno sull’ambiente. Esiste una procedura obbligatoria
- valutazione ambientale strategica (VAS) - abbiamo scritto, che impone di
determinare in anticipo l’impatto delle nuove opere sul territorio. Nessuno ha
risposto.
E la settimana prossima milioni di metri cubi di
cemento sommergeranno per sempre la nostra ultima spiaggia.
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