martedì 28 aprile 2020

L'insostenibile inapplicazione di un Piano

abstract

qui il documento completo
Per una società del secondo millennio appariva impensabile che si potesse verificare una crisi sanitaria con effetti paragonabili a quelle che abbiamo appreso dai libri di scuola. Oggi ci ritroviamo confinati nelle nostre case, privi delle nostre certezze, divisi nelle scelte. Nessuno può ritenersi depositario di un futuro, che già in precedenza appariva nebuloso e incerto sotto i colpi delle crisi ricorrenti. Con questo documento, partendo dall'analisi di alcuni momenti chiave del disastro pandemico, intendiamo proporre una riflessione sugli effetti che ne sono derivati. Dal quadro che ne scaturisce risulta in tutta la sua evidenza la fragilità di un pianeta prossimo al collasso e la necessità di un cambiamento sistemico che investa tutti i campi dell'agire umano, piuttosto che la ripresa dissennata di una corsa senza meta.

Su raccomandazione dell’OMS l’Italia fin dal 2010 si era dotata di un Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale, ma è stato totalmente disatteso, nonostante contenga tutte le azioni da intraprendere prima, durante e dopo il diffondersi delle pandemie. Il Piano, alla cui elaborazione ed attuazione erano state chiamate le Regioni, il CCM e altre strutture dello Stato, contiene le procedure da seguire, dimensiona e individua le infrastrutture e i dispositivi da impiegare, stabilisce i quantitativi di apposite scorte di materiale e medicinali da avere sempre a disposizione, prevede la formazione del personale coinvolto, sanitario e non, e le modalità di informazione ed eventualmente formazione delle comunità interessate. Nonostante ciò nessuna delle misure previste è stata adottata!
Sussiste la conferma scientifica che allevamenti intensivi, sottrazioni di habitat alle specie selvatiche, inquinamento sono stati fattori concorrenti nella diffusione del virus. Ulteriore pericolo proviene dal fatto che negli allevamenti vengono somministrate massicce dosi preventive di antibiotici che rendono gli agenti patogeni più resistenti. Anche l’inquinamento atmosferico ed in particolare le polveri sottili giuocano un ruolo importante nel veicolare i virus. Tra i fattori di diffusione vanno inoltre considerate le condizioni di deprivazione in cui è costretta a vivere la maggior parte della popolazione mondiale. 

Problema rimosso nella società italiana è quello delle carceri sulle quali è calato il totale silenzio. Occorre rendere pubblici i dati epidemiologici degli istituti di pena e rendere dignità umana alle condizioni di vita di coloro che vi sono detenuti, obbligo richiamato anche dalla comunità internazionale
Anche la scuola è stata pesantemente coinvolta in questa tragedia nazionale. Gli insegnanti hanno svolto una funzione di sostegno civile nell’ambito delle stesse attività pedagogiche. All’impegno profuso lo Stato ha risposto con l’esasperazione dei controlli e l’inasprirsi di un regime verticistico. La scuola, come sanità e ambiente, ha bisogno di risorse e sostegno pubblico, nonché della rivalutazione culturale del suo ruolo all’interno di una società che richiede in modo sempre più pressante conoscenza e formazione. Scuola, sanità, ambiente devono ritornare ad avere un ruolo centrale, pena il collasso dell’intero sistema sociale, in una visione complessiva di una società nuova, più inclusiva, più giusta, che consideri sì le tecnologie strumento di progresso ma nello stesso tempo assuma a valore fondante le relazioni umane e con esse la valorizzazione delle diversità senza lasciare spazio allo sfruttamento delle persone e dei sistemi.
Il Governo per contrastare il diffondersi del covid19 ha creato una task force composta di soli tecnici dimostrando di avere una visione settoriale, polarizzata quasi esclusivamente sui fattori tecnici. Un approccio interdisciplinare con la presenza di esperti e di rappresentanti della società civile sarebbe stato più idoneo a risolvere l’emergenza, sia perché il covid 19 coinvolge l’intero sistema nazione, ma anche perché è in seno alla commissione che si porranno le basi per suo rilancio.
Il problema pandemia è stato affrontato a colpi di DPCM. Pur se previsto dalla Costituzione e giustificato dall’emergenza tale strumento legislativo comporta una deparlamentarizzazione dei processi decisionali e pone le premesse per una pericolosa deriva antidemocratica. Il pericolo risulta accentuato dalla concomitante adozione di misure che limitano le libertà individuali sancite dalla Costituzione.
Si propone invece il ritorno al rispetto delle garanzie democratiche e l’adozione di un Protocollo Sanitario, con misure differenziate per emergenze, situazioni e localizzazioni e la messa a disposizione immediata dei dpi. A seguire, l’adozione di politiche che prevedano il ripristino dell’intero sistema pubblico sanitario al fine di garantire l’accesso collettivo ai servizi anche mediante la loro razionalizzazione e diffusione nelle aree più marginali ed esposte, e che promuovano la prevenzione sanitaria, l’educazione alimentare, e tutti gli interventi intesi a limitare al minimo le cause dell’inquinamento ambientale. 
La tutela della salute pubblica dovrebbe essere assicurata attraverso la totale revisione delle produzioni industriali e il rispetto del termine del phase-out dai combustibili fossili (2025). Come pure si pone la necessità di intraprendere le attività volte al contrasto al dissesto idrogeologico, alla bonifica delle aree degradate dalle attività industriali, alla messa in sicurezza antisismica degli edifici pubblici e dei centri storici, al potenziamento della rete di trasporti pubblici e di infrastrutturazione cittadina, al sostegno finanziario dell’efficientamento e del risparmio energetico, alla messa in valore dello straordinario patrimonio ambientale e paesaggistico del nostro paese
Accantonare queste esigenze nazionali a vantaggio esclusivo del rilancio economico e produttivo significa predisporre il terreno per una nuova e più grave crisi sanitaria e ambientale.

Graziano Bullegas, Presidente Italia Nostra Sardegna 
Giorgio Canetto, Cesp Cobas - Centro Studi per la Scuola Pubblica Cagliari 
Mauro Gargiulo, Segretario Italia Nostra Sardegna 
Antonio Muscas, Attivista per l'ambiente e i diritti umani 
Gisella Trincas, Presidente A.S.A.R.P.



lunedì 20 aprile 2020

Arcipelago del Sulcis: tre comuni, due isole, un’unica area marina protetta

Fenicotteri nelle saline di Sant'Antioco
Con una lettera inviata al Ministero dell’Ambiente e all’Istituto Superiore Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA), la sezione di Sant’Antioco dell’Associazione Italia Nostra ha chiesto che già nella prima fase di studio finalizzata alla istituzione dell’Area Marina Protetta nel sud della Sardegna siano compresi i tre comuni, le due isole maggiori e le isole minori che formano l’arcipelago del Sulcis.
La crisi sanitaria ed economica che sta attraversando l’intero pianeta ci convince sempre più che la ripresa non possa più prevedere la riattivazione degli stabilimenti nocivi ed inquinanti, ma che l’intero sistema economico e produttivo debba finalmente orientarsi verso una vera riconversione ecologica di cui il pianeta ha urgente bisogno e le aree di tutela rappresentano un primo, importante passo in questa direzione.
L’arcipelago del Sulcis è formato da un unico ecosistema marino con le stesse caratteristiche e criticità, con le medesime emergenze ambientali che, pertanto, devono essere tutelate nella medesima misura. Lo stesso Piano Paesaggistico Regionale individua il sistema insulare di Sant’Antioco e San Pietro come un unico spazio marino costiero che rappresenta l’elemento di identità e relazione del complesso sistema di risorse storiche, insediative ed ambientali. Notevoli sono infatti gli elementi di natura ambientale e paesaggistica che accomunano le due isole: la presenza di zone umide e di diverse aree attrezzate per la produzione del sale,  numerosi siti inseriti nella rete Natura 2000 e le Important Bird Area, la variabilità della costa e le caratteristiche geologiche e morfologiche delle zone costiere, gli endemismi presenti, le essenze botaniche e la stessa fauna, le colture praticate nelle due isole maggiori etc…
Isola di San Pietro: costa occidentale
Per questo motivo le aree di tutela non possono limitarsi a seguire i confini amministrativi dei comuni, ma devono includere territori omogenei che, pur con le proprie peculiarità, contribuiscono ad arricchire e diversificare l’ambiente e l’economia delle aree interessate alla AMP.
Anche le criticità ambientali, purtroppo, accomunano le due isole: la compromissione ambientale derivante dalle attività del Polo Industriale di Portovesme e dal poligono militare di Capo Teulada che costituiscono una permanenza del territorio costiero e che hanno determinato spesso usi conflittuali delle risorse in rapporto alla naturale evoluzione degli ecosistemi, l’eccessivo carico antropico sulle spiagge seppur in brevi periodi dell’anno, il lento e progressivo degrado dovuto all’eccessivo e non sostenibile prelievo di pescato che impoverisce sempre più il mare. 
Laguna di Sant'Antioco
Alcune di queste criticità potrebbero, anche se parzialmente, essere ridotte attraverso una intelligente politica di gestione ambientale a condizione che essa sia unica per l’intero arcipelago. Diversamente si rischierebbe di salvaguardare e tutelare solo una parte di territorio, scaricando sul resto dell’arcipelago il carico antropico e degli operatori del mare, creando nel complesso più i danni ambientali che benefici.
Per tutti questi motivi riteniamo fondamentale che gli studi e le attività propedeutiche all’istituzione dell’AMP debbano coinvolgere il territorio delle due isole, le amministrazioni locali dei tre comuni e l’intera popolazione. Oggi più che mai il nostro mare e gli stessi pescatori che vi operano, i cittadini e gli operatori turistici, necessitano di immediati interventi di salvaguardia e tutela utili anche a rilanciare i numerosi settori economici ad essi connessi. 
Isola della Vacca nel golfo di Palmas 

sull'argomento


Vista del nucleo industriale di Portovesme dall'isola di San Pietro


Costa occidentale di Sant'Antioco - residence sulla falesia


giovedì 16 aprile 2020

17 aprile: giornata internazionale della lotta contadina.

Passeremo sulla terra leggeri?


Ogni anno, il 17 aprile ricorre la giornata internazionale della lotta contadina, istituita in ricordo della strage di Eldorado Dos Carajas, avvenuta nello stesso giorno del 1996, in cui 19 contadini che manifestavano pacificamente furono uccisi dalla polizia brasiliana. Una giornata che nasce per ricordare che il cibo non è merce ma è vita e che ci induce a riflettere, mai come in questo momento, sulla inderogabile necessità di optare per   un’agricoltura che rispetti ambiente e contadini, abbandonando un sistema dissennato di sfruttamento delle risorse.
All’interno di ciò che mangiamo, non ci sono solo i nutrienti , le sostanze di cui ha bisogno il nostro corpo e quelle che lo rendono “buono”, ma ci sono anche relazioni, valori sociali, risorse come  energia, acqua, suolo.
È a partire dagli anni ’70, con la diffusione dei supermercati, che ci siamo allontanati sempre di più dall’origine dei nostri alimenti, nonostante siano il nostro bisogno primario. Non ci chiediamo più cosa stiamo effettivamente mangiando e perché acquistare prodotti alimentari coltivati a migliaia di chilometri di distanza possa essere così semplice e poco costoso.
Il distacco cognitivo dal cibo che mangiamo ha favorito l’ignoranza e il disinteresse per le conseguenze che può causare il modo con cui viene prodotto.
Quale è il vero prezzo che paghiamo per il cibo che mangiamo?
Il cibo a basso prezzo è un’illusione, non esiste. Il vero costo del cibo alla fine viene pagato da qualche parte. E se non lo paghiamo alla cassa, lo paga l’ambiente”. (Michael Pollan)
Il sistema industriale, che attualmente prevale, non tiene conto di stagioni, lavoratori, risorse da consumare in maniera più responsabile. L’agroindustria ci consente di acquistare cibo di bassa qualità, in grandi quantità e a un prezzo basso. Ma un sistema di questo tipo sacrifica, in nome della resa e del profitto, l’ambiente e la salute delle persone.
Sono sempre più accreditate le ipotesi che collegano la pandemia Covid-19 alla distruzione della biodiversità da parte dell’uomo e alla produzione industriale del cibo, in particolare della carne. La situazione attuale di emergenza non è capitata per caso o per sfortuna, ma è il risultato delle scelte quotidiane che facciamo e di cui tutti siamo responsabili.
Già nel 2004, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), segnalava come l’incremento della produzione industriale di carne potesse portare all’insorgenza e propagazione di zoonosi (patologie trasmesse dagli animali agli esseri umani). Basti considerare che solo in Asia il numero animali allevati si è praticamente triplicato nel giro di 30 anni. La Cina è la maggiore produttrice di animali allevati del mondo e se nel 1980 solo il 2,5% degli allevamenti cinesi era costituito da macro-fattorie (allevamenti intensivi al chiuso), nel 2010 queste hanno raggiunto il 56%.
C’è, quindi, un evidente legame tra epidemiologia ed economia politica, ed è per questo che occorre interrogarsi sulla sostenibilità di uno stile di vita capace di scatenare devastazioni così drammatiche e approfittare di questo tempo sospeso per chiederci quali conseguenze possano scaturire dalle nostre scelte alimentari e per rivoluzionare le nostre abitudini.


Quale tipo di sistema di produzione-distribuzione del cibo si sta rafforzando durante la pandemia?
È un dato acquisito che nel corso di queste settimane di lockdown, le vendite nella grande distribuzione siano aumentate costantemente rispetto agli stessi periodi del 2019.
È dunque evidente che tutto il sistema di produzione-distribuzione industriale di cibo che pure ha contribuito all’emergenza di oggi, esce rafforzato dalla pandemia, mentre viene ulteriormente affossato un sistema più sostenibile quale quello della piccola agricoltura.
Negli ultimi dieci anni l’Unione Europea ha perso un terzo delle piccole aziende: solo in Italia sono diminuite del 68%, passando da 2.376.440 nel 1990 a 764.740 nel 2013 (vedi grafico 1).
A causa della pandemia le piccole aziende fanno ancora più fatica. Infatti le chiusure dei mercati cittadini all’aperto, dei bar e ristoranti, alle quali si aggiungono le nuove norme sul controllo della mobilità, l’aumento dei costi per la sicurezza dei lavoratori, rendono la vita ancora più difficile alle piccole realtà produttive.
Grafico 1 - Riduzione del numero delle aziende agricole in Europa

Perché è importante aiutare la piccola agricoltura a sopravvivere e resistere allo strapotere dell’agroindustria?
Tra lo spreco di risorse determinato dall’agribusiness, c’è quello del suolo. L’agricoltura industriale determina in Europa una perdita di 970 milioni di tonnellate di suolo ogni anno. Anche il nuovo rapporto di Greenpeace sostiene che tra il 2010 e il 2020 almeno 50 milioni di ettari di foresta (un’area delle dimensioni della Spagna) saranno distrutti per fare spazio alla produzione industriale di materie prime agricole.
La distruzione di ecosistemi e la perdita di biodiversità non risulta nemmeno giustificata dall’esigenza di produrre cibo perché buona parte di esso viene sprecato.
La FAO, nel 2016, infatti stima che ben il 30% di quello che produciamo, lo buttiamo via (vedi grafico 2). Ma lo spreco di cibo non è solo un problema morale (oltre due terzi di questo cibo sarebbe ancora riutilizzabile e circa la metà basterebbe a risolvere il problema della fame nel mondo), ma anche un problema ambientale. La quota di cibo sprecata corrisponde a un consumo di acqua (250 km3, circa 5 volte il volume del Lago di Garda) e suolo (28% delle terre agricole), ad una produzione di gas serra (7 volte le emissioni dell’Italia) e ad un aumento della quantità di rifiuti prodotti, non solo organici. Basti pensare alla quantità impressionante di imballaggi che contengono la maggior parte dei prodotti alimentari presenti in commercio (un’inchiesta del Guardian nel 2018 ha testimoniato che i supermercati inglesi producono in media 800 mila tonnellate di rifiuti in plastica ogni anno, solo di imballaggi).
Solo in Italia la quantità di cibo sprecata costa tra i 13-16 miliardi di euro (1). È un dato che conferma la necessità di un radicale cambiamento del modello produzione-consumo, che dovrebbe portare a produrre meno cibo ma più sano attraverso il sostegno alla piccola agricoltura più virtuosa e sostenibile. Questa invece soccombe a causa dello strapotere di un sistema di distribuzione e produzione del cibo insensato e pericoloso. 
Tutto ciò porta inevitabilmente all’abbandono delle terre che finiscono per essere soggette a degrado (incendi, alluvioni) e speculazione. Solo in Sardegna se nel 1960 (con una popolazione 85% di quella attuale) la superficie coltivata a grano duro era di circa 186.000 ha, nel 2013 risultava poco più di 35.000 ha. 
Nella nostra Isola negli ultimi anni si è avuto un incremento del numero di occupati nel settore agricolo (31.678 nel 2013 e 34.000 nel 2014), un dato che segnala l’aumentato interesse verso questo tipo di attività che andrebbe maggiormente incoraggiato dalla politica, anche mediante una maggiore celerità nell’espletamento delle pratiche e nell’erogazione dei finanziamenti destinati al settore. 
Invece a giugno di quest'anno 900 milioni di fondi europei per l’agricoltura rischiano di svanire se, entro aprile, l’Agenzia Regionale Argea non provvederà a espletare le domande presentate per i contributi del Piano di sviluppo rurale 2014-2020. Delle 50mila pratiche presentate alcune sono bloccate addirittura da anni e questo ritardo rischia di far chiudere molte aziende esistenti e di impedire a quelle nuove di insediarsi.
È lampante che occorra riprendere a produrre localmente la gran parte del proprio cibo (in Sardegna l’80% del cibo viene importato), e ciò non solo è possibile ma anche conveniente, perché comporterebbe un minor inquinamento per il decremento del trasporto e costituirebbe occasione di lavoro e reddito per le comunità locali. È di fondamentale importanza, dunque, incentivare un sistema di produzione agroecologico più rispettoso della terra e delle persone che ci abitano, ma soprattutto un sistema che ci consente di avere a disposizione cibo salubre.

Grafico 2 - Spreco di cibo in Europa

Quale è ruolo della grande distribuzione organizzata (GDO) nella distruzione dell’economia agricola?
Si stima che circa il 70% del cibo venga acquistato prevalentemente attraverso il canale della grande distribuzione dove l’offerta speciale è diventata il motivo principale dell’acquisto. Lo conferma il fatto che il consumatore si sposta da un supermercato all’altro in base alle super offerte.
Numerose inchieste hanno portato alla luce cosa si nasconde dietro il business dell’offerta speciale. La grande distribuzione impone ai fornitori molteplici contributi (“tassa” per stare sullo scaffale, contributi in merce per l’apertura di nuovi punti vendita e altri sconti sui prodotti imposti a posteriori), che complessivamente, secondo un’indagine Antitrust del 2013, costano alle singole aziende fornitrici circa il 24% del fatturato. Grazie, poi, al meccanismo delle doppie aste elettroniche la GDO riesce a comprare a prezzi ancora più bassi alcune tipologie di prodotti alimentari (es. passata di pomodoro, formaggio). Questo sistema fa sì che l’industriale sia spinto a comprare dai produttori la materia prima (pomodoro, latte) a un costo inferiore a quello di produzione.
A loro volta i produttori per sopravvivere sono costretti a utilizzare pratiche poco sostenibili per aumentare le rese (manodopera a basso costo, utilizzo di fitofarmaci, antibiotici). Questo perverso meccanismo consente alla GDO di fare mercato attirando la clientela attraverso la strategia del sottocosto, ma nello stesso tempo spinge l’intero comparto produttivo verso produzioni industriali scadenti da un punto di vista qualitativo e non sostenibili.
Come consumatori dobbiamo dunque essere consapevoli che, se i prodotti sono offerti a basso costo, non solo viene meno la qualità del cibo, ma si distruggono l’ambiente e le economie locali.

Quale potere è nelle mani dei consumatori?
Nel 2018 - ci dice l’ISTAT - il valore della spesa alimentare domestica in Italia è ammontata a 142,5 miliardi di euro, con una spesa pro capite di 2.428 euro, la più alta in Europa. Poiché, come detto, circa il 70% del cibo viene acquistato attraverso il sistema della grande distribuzione (supermercati/ipermercati), dobbiamo prendere coscienza di avere un potere enorme tra le mani che potremmo usare per spingere il sistema verso una produzione/distribuzione del cibo non solo più salutare per noi e per il pianeta, ma anche più giusta per i lavoratori del settore.
Non è sufficiente solo comprare cibo etichettato come biologico o locale, è fondamentale acquistarlo prevalentemente al di fuori del canale della grande distribuzione, tagliando la filiera, quando possibile direttamente dal produttore oppure tramite i gruppi di acquisto solidale o nei mercati cittadini.
Fare la spesa dovrebbe diventare la prima azione di solidarietà e sostegno per quei lavoratori della terra e quei produttori che tentano di costruire sistemi più sani di produzione del cibo. Dovrebbe essere chiaro ormai a tutti che la solidarietà sociale, economica, generazionale debba essere l’unica chance che ci possa portare fuori da questa crisi dei sistemi geopolitici e averlo voluto ignorare per così lungo tempo ci sta costando un prezzo altissimo, non confrontabile né economicamente né eticamente con i pochi spiccioli risparmiati sul carrello della spesa.
Da questa esperienza pandemica possiamo (e dobbiamo) certamente imparare che bisogna prepararsi ad affrontare le eventuali zoonosi del futuro (più posti letto in ospedale, più mascherine, più formazione del personale sanitario). Ma è ugualmente importante che non basta arrivare a gestire il rischio solo in termini di emergenza, occorre fare prevenzione mettendo in discussione nei fatti le cause economiche e socio-culturali che periodicamente portano a queste crisi. In sintesi, dovremmo imparare a “passare sulla terra leggeri”!
Di G. Angioni, delegata per l'alimentazione responsabile di Italia Nostra Sardegna

(1)   Allo spreco domestico (12 mld) si sommano le perdite in campo (circa 1 miliardo e 25 milioni), gli sprechi nell'industria (circa 1 miliardo e 160 milioni) e nella distribuzione (circa 1 miliardo e 430 milioni). Per l’anno 2015 il valore complessivo ammonta a 15 miliardi e 615 milioni di spreco alimentare annuo (elaborazione Distal - Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-alimentari - Università di Bologna e Last Minute Market su dati Borsa Merci Bologna).
Foraggera nell'isola di Sant'Antioco

Bibliografia:

    Testi di riferimento:
“Il nostro cibo - Per la sovranità alimentare della Sardegna” - M. Fadda e F. Parascandolo (Libreria editrice fiorentina)
“Cibo Locale” - R- Hopkins - T. Pinkerton (Il filo verde di Arianna)
“Spillover: l’evoluzione delle pandemie” -  D. Quammen (Adelphi Edizioni)
“Il metodo spreco zero” - A. Segrè (BUR)
“I signori del cibo - Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta” - S. Liberti (Minimum Fax)
“Siete pazzi a mangiarlo” - C. Brusset (Piemme)

Della stessa autrice su questo blog "La strana vicenda del consorzio Sardo grano Cappelli" 


Scorcio di campagna della Sardegna










sabato 11 aprile 2020

I VIP a Castiadas: un interesse regionale!

Ci si sarebbe atteso dalla Giunta Solinas almeno un sussulto di resipiscenza al dilagare del Virus in terra sarda. Come ignorare infatti il prezzo pagato dagli operatori sanitari per l’assenza dei dpi, l’inesistenza di direttive, la mancanza di protocolli. A dire che, tra insularità e modalità di diffusione, i danni pandemici potevano essere limitati; invece frottole su mascherine e tamponi, foraggiamento di cliniche private, falle nella gestione di ospedali e case di riposo hanno finito per attrarre l’interesse della magistratura, vanificando il tentativo d’imbavagliare la protesta.
Per arginare la debacle sanitaria, dal cappello a tesa tonda del Governatore salta fuori l’idea del cemento quale antidoto al Coronavirus!
A tutti sono note le virtù terapeutiche di questo amato materiale (soprattutto se colato a fiumi con vista mare), i pregi da tumulazione, gli effetti sanificanti per le vie aeree, le attitudini sterilizzanti su ecosistemi ed ambiente, nonché la funzione lubrificante di una macchina politica ormai grippata da un ospite inatteso. E’ dunque in una tragica temperie che vede la luce il ddl concernente le modifiche alla legge urbanistica sarda e al vigente piano casa. Gli esiti di una battaglia che si preannuncia lunga e sanguinosa non sono però scontati, mentre cresce la pressione di chi non è disponibile a farsi uccellare dall’agitar di un regolo. Ecco allora, a seguire, la delibera di Giunta n.17/21 del primo aprile 2020 (data forse non casuale) con la quale il progetto di una megastruttura alberghiera in località Monte Turnu, comune di Castiadas, viene dichiarato di “preminente interesse generale e di rilevanza regionale”.

Di tale progetto non è dato conoscere se non i vaghi cenni presenti in Delibera o negli elaborati del PUC. Trattasi di una struttura alberghiera fronte mare e prospiciente l’arenile e in prossimità di un nuraghe, di cubatura pari a mc. 10.000, realizzata su di un’area complessiva di mq. 71.445, di cui mq. 59.288 in zona urbanistica F2 di Interesse Turistico e mq. 12.157 in zona H di Salvaguardia integrale (in pratica la spiaggia antistante il lotto).  Legittimo dunque chiedersi per quale motivo una speculazione edilizia non debba seguire le procedure d’obbligo. Il problema, argomenta la Delibera, è che il Comune di Castiadas non ha mai provveduto ad adeguare il Piano urbanistico comunale alle disposizioni del Piano Paesaggistico regionale, disposizioni aggiungiamo noi che limitano o addirittura impediscono tali interventi in Ambiti sottoposti ai vincoli dettati dal piano stesso.  Per quale motivo i solerti amministratori di Castiadas in 14 anni (tanti ne sono passati dal varo del PPR) non abbiano provveduto a tale adempimento e ricorrano oggi ad una procedura di dubbia legittimità quale quella della variante ad un PUC privo di adeguamento, abdicando alla tutela di un territorio di alta valenza paesaggistica, è un enigma il cui scioglimento si lascia all’intuito del lettore. Potrebbe essere d’aiuto il rammentare che a più riprese e senza distinzione di colore politico molteplici sono stati i tentativi di scardinare l’armatura della normativa paesaggistica.
Sulla base di tali premesse la Delibera, ricorrendo al comma 2 dell’art. 20 bis della legge urbanistica, scioglie il Comune dall’obbligo prioritario dell’adeguamento del PUC al PPR, e fa in modo che la variante si possa di fatto sottrarre ai vincoli di tutela paesaggistica. Il comma in questione prevede infatti una tale opzione nel caso di interventi di “preminente interesse generale e di rilevanza regionale”, requisiti riscontrabili, secondo la Delibera, nella erigenda struttura alberghiera per il semplice assunto che la stessa si andrebbe a collocare tra quelle definite di “alta gamma”. 
Sulla scorta di tale cogente motivazione si dovrebbe arguire che i vincoli di tutela paesaggistica assumano elasticità o possano venir meno nei confronti di imprenditori disposti a realizzare strutture fruibili da elites economiche, perché le alterazioni ambientali da esse indotte sarebbero giustificate da interessi collettivi. Per estrapolazione potrebbe nascere il sospetto della surrettizia introduzione di un innovativo principio nell’ordinamento democratico secondo il quale la fruizione di categorie di beni di interesse collettivo (il paesaggio è infatti tra questi) debba farsi rientrare nel diritto esclusivo di un godimento censitario. 

Le scontate giustificazioni di questo monstrum amministrativo si rinvengono poi nei consueti richiami al “discreto incremento occupazionale”, all’immancabile “alto tasso di disoccupazione” e alle inevitabili “positive ricadute in termini di immagine del territorio”. In sintesi all’operazione, assicurano i deliberanti, conseguirebbe una “valorizzazione delle componenti ambientali, paesaggistiche e culturali”.

Se ignota o sospetta resta la natura delle ricadute positive derivanti al territorio da auree natiche esposte al sole e blindate per pochi giorni all’anno in un resort di lusso, di dubbia onestà intellettuale appare il richiamo alla messa in valore delle “componenti ambientali e culturali”.

In sintesi per dirla nel fine lessico leghista questa Delibera è un’emerita “porcata” sia nei tempi che nei contenuti. Né vale a discolpa del Solinas il tardivo ripensamento con annunciata Revoca (temporanea !) della Delibera, disposta sotto la montante indignazione popolare a due giorni dal pappagallesco mantra di conferma da parte dell’Assessore all’Urbanistica, squallido remake del dejavu tra lo stesso Solinas e il collega odontoiatra sotto l’incalzare della pandemia. 
In tempi pasquali e di Coronavirus vien fatto di pensare che quel Christus patiens sia appeso nel tormento di questa nostra martoriata terra mentre implora perdono per la stoltezza delle scelte elettive dei suoi figli.

Mauro Gargiulo
Segretario Regionale di Italia Nostra Sardegna


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martedì 7 aprile 2020

Italia nostra e le associazioni ambientaliste: al primo posto la salute umana, l’ambiente e gli animali

Appello ai Presidenti delle Commissioni permanenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

L’esperienza del Coronavirus impone di ripartire mettendo al primo posto la salute ambientale, umana e degli animali.

Marevivo, Accademia Kronos, CETRI-TIRES, CoMISMA, Fise Unicircular , Fondazione Symbola, Fondazione Univerde, Greenpeace, Italia Nostra, Kyoto Club, LAV, Legambiente, Lipu-Birdlife Italia, Stazione Zoologica Anton Dohrn Napoli, Università UniCamillus, WWF Italia, chiedono che le Commissioni riprendano il loro lavoro con la massima urgenza.

Chiediamo che le Commissioni parlamentari riprendano i lavori, anche ricorrendo ad attività in remoto, come stanno facendo tante aziende e istituzioni del Paese, incluse quelle dell’Istruzione e dell’Università, che in questo modo permettono a tutti noi di avere beni e servizi di prima necessità. 
Il Paese deve ripartire nel modo giusto, realizzando la sostenibilità enunciata nei programmi dei Governi nazionale ed Europeo (il Green Deal) per la prosperità delle aziende e del Paese, mettendo al primo posto la salute ambientale e umana, come prerequisito per un sano sviluppo economico. Il sistema delle aziende “green” italiane, leader a livello europeo è pronto a dare il proprio contributo a queste auspicabili scelte politiche. 
Questo è il momento di innescare un nuovo inizio rispettoso della salute dell’ambiente, umana e degli animali. “Ci siamo illusi di poter essere sani in un mondo malato” queste le parole di un grande uomo del nostro tempo, Papa Francesco. Occorre ripensare le priorità a cui far fronte e ridisegnare, con opportune leggi e scelte politiche, un sistema di produzione e consumo più sano e sostenibile. I paradigmi del passato hanno fallito, occorre disegnarne altri. 
Con le dovute precauzioni per la salute dei Parlamentari e di chi lavora con loro, chiediamo che le Commissioni continuino il loro corso: è indispensabile che il cuore pulsante della democrazia nel nostro Paese non si fermi! 
La pandemia miete un numero di vittime enorme nelle aree sovrappopolate ed inquinate, come le Regioni del Nord Italia produttivo, la Cina, l’India e ora New York, tutte caratterizzate da alti tassi di inquinamento. E’provato che l’inquinamento atmosferico è un fattore di rischio nelle malattie respiratorie ed è difficile pensare che sia solo un caso quando il maggior numero di morti di questa pandemia è in zone dove anche in periodi ordinari tutto si deve fermare, periodicamente, per l’inquinamento atmosferico. L’emergenza sanitaria ci deve far riflettere su quanto l’alterazione degli ecosistemi e la sottrazione di habitat naturali alle specie selvatiche può favorire il diffondersi di patogeni prima sconosciuti. Per il bene e la salute di tutta l’umanità bisogna, quindi, riprendere con la massima urgenza le leggi che possono far fronte all’emergenza ambientale, oramai planetaria e non più trascurabile.
Occorre che siano approvate leggi sui Cambiamenti Climatici, l’Economia circolare e la difesa della biodiversità negli habitat terrestri e marini temi posti all’attenzione dei Parlamentari e che aspettano un’urgentissima risposta.

RWM a Domusnovas: quando il re è nudo

Intervista rilasciata a Matilde Spadaro, redazione del sito di Italia Nostra

Se c’è una storia che ha messo a nudo le contraddizioni dell’Italia  di fronte al mondo è quella della produzione di materiali bellici della RWM di Domusnovas in Sardegna. Il principio stabilito dalla Nostra Costituzione per il quale l’Italia ripudia la guerra non sembra albergare qui, nella zona che ospita la più grande fabbrica di bombe d’Europa. A sostenere però l’impostazione data dai padri fondatori della Repubblica in questo angolo di territorio è la posizione assunta da un grande coordinamento di associazioni e rappresentanti territoriali che da anni si battono affinchè la produzione di ordigni bellici destinati alle guerre del mondo conosca una riconversione. Oltre ai problemi etici e morali, attestati in tanti servizi televisivi e sui quotidiani di tutto il mondo, ci sono i problemi ambientali, quelli relativi alla regolarità urbanistica, quelli dei contributi pubblici utilizzati per la costruzione della strada che giunge all’impianto, quelli della ricaduta lavorativa reale sul territorio. Un coacervo di questioni che si uniscono in un intreccio indissolubile che ha preso origine dall’assenza di un piano per la riconversione dell’allora impresa S.E.I. Società Esplosivi Industriali S.p.A., attiva nella produzione di ordigni per l’impresa mineraria e poi passata in gestione alla RWM Italia. Ora, con lo stigma di paese fornitore di ordigni utilizzati nella guerra in Yemen da parte dell’Arabia Saudita che ha connotato il nostro Paese grazie al commercio di bombe ivi prodotte, sarebbe giunto il momento di dare una svolta decisa alla questione.
Ne parliamo con Graziano Bullegas, Presidente di Italia Nostra Sardegna, in prima fila per la battaglia sulla riconversione della produzione della RWM.
D.) Iniziamo dai fatti più recenti. Nonostante la serrata imposta per il distanziamento sociale utile a contrastare la diffusione del coronavirus, la RWM sta procedendo con i lavori di ampliamento.
R.) Nella prima metà di marzo gli uffici del SUAP del comune di Iglesias sono stati più che mai attivi nell’istruire numerose pratiche relative all’ampliamento dello stabilimento di Domusnovas-Iglesias. La strategia utilizzata è quella dello “spezzatino”, ormai collaudata negli anni. Non si presenta una istanza univoca e un piano attuativo, ma più richieste per singoli interventi in modo da impedire una visione generale dell’intervento in atto, eludere pareri di natura regionale molto più complessi e soprattutto esigenti dal punto di vista delle documentazioni aggiunte. Prima presentano la richiesta di effettuare lo scavo, poi quella per la strada, poi quella per i basamenti sul terreno, e infine quella per la cabina elettrica, la cosa e’ estenuante. Si pensi che andiamo avanti così dal 2017 con oltre venti richieste presentate! Appare veramente assurdo che nel pieno di una crisi epocale, che trova gli ospedali sardi sguarniti perfino delle mascherine per proteggere i medici che curano i contagiati in terapia intensiva e negli stessi ospedali e nelle case di cura la gente si ammala e muore, mentre tante aziende reinventano la loro produzione per adeguarla ai nuovi e più impellenti bisogni imposti da questa crisi sanitaria epocale, in Sardegna si prosegua imperterriti nell’ampliamento di una fabbrica al fine di incrementare la produzione di strumenti di distruzione e di morte, con il beneplacito di enti e amministrazioni locali e regionali. 
D.) Sono anni che vi state occupando della questione. A che punto è il ricorso al Tar che avete presentato?

R.) Abbiamo presentato un ricorso al Tar nel Gennaio 2019 sul quale abbiamo predisposto motivi aggiunti in quanto l’impossibilità di avere la documentazione ci ha condotto a poter sottoporre delle integrazioni al Tribunale soltanto in un secondo tempo. A Novembre 2019 risale il ricorso straordinario rivolto invece al Presidente della Repubblica. Tutte le richieste di accesso agli atti di norma vengono rigettate e molte informazioni le abbiamo tratte dalla documentazione acclusa al progetto riguardante una parte dello stabilimento sottoposto a VIA. Ma basterebbe un sopralluogo nel cantiere per rendersi conto dei danni prodotti al paesaggio dalla movimentazione terra, dalla creazione di terrapieni e di nuovi altipiani, dalle impressionanti modifiche apportate alla morfologia del terreno ed al paesaggio in generale, per capire che quell’intervento non poteva essere autorizzato in quel luogo e con le modalità seguite. Insomma, una alterazione irreversibile e paesaggisticamente non mitigabile del territorio tanto da fargli perdere del tutto il suo originario aspetto.
D.) Considerate tutte queste situazioni, la questione si pone su un piano connotabile dal punto di vista di opportunità più squisitamente politiche e di comportamenti precipuamente istituzionali. Qual è la sua opinione in merito?
R.) Viviamo in una sorta di anomalia completa. Qesto grazie ad una certa “benevolenza” generalizzata. Come si è denunciato da tempo, quella fabbrica rappresenta un serio pericolo per la pubblica incolumità e per la salvaguardia dell’ecosistema in quanto stabilimento ad elevato rischio di incidente rilevante (D.lgs 105/2015 e d.lgs 334/1999), con un Piano di Sicurezza Esterno “scaduto” da ben 9 anni e mai aggiornato all’attuale produzione di ordigni bellici. Il tutto reso ancor più insostenibile dal rilascio da parte della provincia di una autorizzazione ambientale semplificata (l’A.U.A.), simile a quella che viene rilasciata a una piccola attività artigianale, anziché l’autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.) più rigida e meno permissiva. Si pensi che la più grande fabbrica di bombe dell’Europa è autorizzata con un’autorizzazione pari a quella che ha un’autofficina! Le amministrazioni locali sono succubi sotto il ricatto occupazionale. Molte istituzioni vivono con un contributo dato a fondo perduto da questa azienda. Il tutto perché siamo nella provincia più povera d’Italia e qualsiasi “benefattore” che arriva è accolto a braccia aperte. 
D.) Ma se, in teoria, questa multinazionale è portatrice di lavoro e quindi va “accolta”, perche’ si è ancora nella provincia più povera d’Italia?
R.) Infatti il dato è chiaro e parla da solo. Cento persone sono state assunte a tempo indeterminato ma l’organico è piuttosto mobile. Se le commesse arrivano allora si assumono gli interinali, altrimenti no. Il ritorno sul territorio di questa operazione non è sicuramente in grado di risollevare la situazione economica della provincia. Potrei sintetizzare dicendo: dal 2012 ad oggi, poveri eravamo e poveri siamo rimasti. Mentre la RWM sta presentando le autorizzazioni per ampliare lo stabilimento, nonostante la produzione sia ferma per COVID-19.
D.) E allora perché non si riesce a riconvertire?
R.) Perche’ la fabbrica realizza profitti enormi. La produzione di ambito civile (divisione autoveicoli e meccatronica) è stata riservata alla Germania così si limitano le contestazioni in patria. Alla RWM di Domusnovas stanno spendendo 40 milioni di euro. Eppure, da risoluzione governativa, la vendita diretta di armi all’Arabia Saudita dovrebbe essere vietata. Ma non si possono certo escludere le triangolazioni…
D.) Il futuro allora come si prospetta?
R.) Continueremo la nostra battaglia proponendo un futuro diverso alla nostra comunità, basato essenzialmente sulle bonifiche delle aree degradate dalle attività industriali e minerarie, sulla tutela dello straordinario patrimonio ambientale e paesaggistico esistente, sul rilancio delle attività primarie del nostro territorio. Siamo convinti che un’alternativa capace di creare nuovi posti di lavoro, più sicuri e dignitosi esiste, dobbiamo farla diventare patrimonio comune.