28 aprile 2020
Per una società del secondo millennio appariva impensabile che si potesse verificare una crisi sanitaria con effetti paragonabili a quelle che abbiamo appreso dai libri di scuola. Oggi ci ritroviamo confinati nelle nostre case, privi delle nostre certezze, divisi nelle scelte. Nessuno può ritenersi depositario di un futuro, che già in precedenza appariva nebuloso e incerto sotto i colpi delle crisi ricorrenti. Con questo documento, partendo dall'analisi di alcuni momenti chiave del disastro pandemico, intendiamo proporre una riflessione sugli effetti che ne sono derivati. Dal quadro che ne scaturisce risulta in tutta la sua evidenza la fragilità di un pianeta prossimo al collasso e la necessità di un cambiamento sistemico che investa tutti i campi dell'agire umano, piuttosto che la ripresa dissennata di una corsa senza meta.
di
Graziano Bullegas, Giorgio Cenetto, Mauro Gargiulo, Antonio Muscas e Gisella Trincas
Virus e Sistemi di difesa, cosa non ha funzionato
A rigor di logica un sistema di difesa dovrebbe essere costituito da un articolato insieme di elementi utili a proteggere il territorio di uno Stato ed i suoi abitanti da qualunque evenienza capace di arrecare un danno tale da minarne il funzionamento, smembrarlo o addirittura distruggerlo.
Poiché gli attacchi che uno Stato può subire non sono esclusivamente di tipo bellico (si pensi ad una guerra batteriologica, chimica o informatica), al pari dei sistemi di difesa tradizionali, di cui l'Italia è certamente ben dotata, si rendono indispensabili anche altri sistemi utili a far fronte ad altri pericoli, in questo caso specifico una pandemia di tipo virale.
L’Italia infatti possiede un Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzalema è stato totalmente disatteso, nonostante contenga tutte le azioni da intraprendere prima, durante e dopo il diffondersi delle pandemie. Il Piano Pandemico è stato raccomandato dall’OMS a tutti i Paesi “seguendo linee guida concordate” ed è stato il Ministero della Salute a farsi carico della sua elaborazione e attuazione, anche per il tramite del CCM (Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie), in accordo con le Regioni, i Dicasteri coinvolti, il Ministero degli Affari Esteri e gli Organismi Internazionali.
Le Regioni/Province autonome, come si può leggere nel Piano, assumono, ciascuna per gli aspetti di competenza territoriale e di concerto con il Ministero della Salute, le responsabilità di approntamento e di mantenimento in efficienza, in armonia con la stessa pianificazione, di tutte le capacità/risorse indispensabili a porre in atto le contromisure per le fasi di prevenzione, contenimento, risposta, ripristino che siano in relazione ad eventi epidemici influenzali.
L’Italia aveva approntato il Piano, da aggiornarsi periodicamente, già dai primi anni del 2000, elaborato in conseguenza delle numerose emergenze degli ultimi anni e in ragione dell'alta probabilità che si potesse verificare una pandemia. Le misure preventive consistono in piani specifici da mettere a punto sin nei minimi dettagli, da verificare accuratamente prima del verificarsi degli eventi anche con test, simulazioni, “con esercitazioni nazionali e regionali, cui parteciperanno tutte le istituzioni coinvolte in caso di pandemia”.
Poiché “l’incertezza sulle modalità e i tempi di diffusione determina la necessità di preparare in anticipo le strategie di risposta alla eventuale pandemia...”, il Piano generale contiene le procedure da seguire, dimensiona e individua le infrastrutture e i dispositivi da impiegare, stabilisce i quantitativi di apposite scorte di materiale e medicinali da avere sempre a disposizione, prevede la formazione del personale coinvolto, sanitario e non, e le modalità di informazione ed eventualmente formazione delle comunità interessate.
Nessuna delle misure previste è stata adottata!
Il problema perciò non è consistito esclusivamente nella carenza di posti letto e di terapie intensive, ma nella incapacità dell’intero sistema nazione e della strategia predisposta dal Piano nazionale di dare una risposta adeguata alla devastante aggressione del Coronavirus.
Cosa ha favorito la propagazione del virus?
È oramai accertato il nesso tra allevamenti intensivi, disboscamento, inquinamento diffuso e sviluppo del virus: la sottrazione degli habitat di specie selvatiche portatrici di malattie trasmissibili all’uomo e l’aumento vertiginoso degli allevamenti industriali di bestiame, favorisce la trasmissione e la diffusione delle malattie tra specie selvatiche e animali d’allevamento e tra questi ultimi e l’uomo. Negli allevamenti intensivi l’elevata concentrazione di animali in spazi ristretti, a cui si associa lo stress psicofisico degli stessi (a dispetto di un’estesa normativa sull’obbligo del rispetto del benessere animale), favorisce lo sviluppo e la propagazione delle malattie infettive, alla qual cosa si sopperisce con somministrazioni massicce di farmaci (in genere antibiotici) anche in forma preventiva. Conseguentemente gli agenti patogeni sviluppano sempre maggiore resistenza ai farmaci utilizzati, rendendo necessario un continuo sviluppo di nuovi e più aggressivi farmaci: un circolo vizioso che comporta inevitabili implicazioni sull’uomo nell’eventualità di un salto di specie. Degna di nota è anche l’elevata incidenza di malattie tra il personale impiegato negli allevamenti a causa dello stretto contatto con gli animali e dell’attività in presenza di numerose sostanze contaminanti.
Le evidenze statistiche confermano che la diffusione del virus e la sua già elevata letalità si accrescono con l’esposizione alle sostanze inquinanti; tra queste in particolare le polveri sottili e la diossina, che oltre a fungere da veicolo per la trasmissione del virus, sono responsabili della compromissione della salute umana e del sistema respiratorio in particolare, proprio quello aggredito dal virus.
Anche l’alimentazione e la salute psicofisica giocano la loro parte in questa vicenda, poiché è evidente che un fisico sano più difficilmente viene aggredito da virus e malattie e meglio ad esse resiste.
Non a caso le Regioni più colpite corrispondono ad aree altamente contaminate per la presenza di insediamenti industriali, inceneritori, e allevamenti intensivi, senza voler tacere che sono le stesse in cui la sanità pubblica, nonostante la vantata eccellenza, è stata maggiormente compromessa da tagli, aziendalizzazione e privatizzazione.
A livello di comunità sono invece le condizioni di deprivazione (scarsa istruzione, promiscuità, sovraffollamento, povertà, marginalità, problemi di igiene, fragilità, difficile accesso al cibo sano, ai servizi e alle cure) a incidere maggiormente nella diffusione del virus. I dati degli Stati Uniti mostrano un incredibile rapporto di 6:1 nella mortalità tra afroamericani e bianchi, confermando ancora una volta che gli individui e le comunità deprivati risultano essere più esposti alle malattie e ai virus. Si intende far riferimento agli abitanti delle periferie povere delle città, (migranti, internati, carcerati, ecc.), per i quali recenti studi pubblicati in Inghilterra, certificano in modo inoppugnabile differenze di aspettativa di vita fino a 10 anni rispetto a individui benestanti residenti nei grandi centri forniti di servizi alla persona adeguati.
C'è poi un luogo di cui poco si parla e su cui invece sarebbe bene interrogarsi: le carceri italiane. Qual è stato e qual è l'impatto del COVID 19 sul sistema carcerario? Questa pandemia potrà essere l’occasione buona per cambiare qualcosa all’interno di esso, visto che finora nulla è stato fatto?
Degli effetti del virus sulle carceri e soprattutto sugli esseri umani che ivi sono detenuti in condizioni che poco hanno di umano, si parla molto poco perché il tacerne comporta di fatto la negazione stessa dell’esistenza ed infatti le carceri italiane sono un problema rimosso da tempo. Il virus ha solo ulteriormente esasperato una situazione già molto critica, evidenziando le storture di un sistema a causa delle quali l’Italia più volte è stata sanzionata e richiamata da organismi sovranazionali.
I contagi all’interno degli istituti di pena, pur nella difficoltà di reperire dati attendibili, sembrano siano in continua crescita. La speranza è che la crisi in atto e l’inadeguatezza delle strutture penitenziarie sensibilizzino la coscienza di una società civile, spesso ignara di tale realtà, e riescano finalmente a imporre interventi di tutela della salute e della dignità delle persone detenute al di là anche dell’emergenza.
Risulta dunque evidente come la diffusione del virus corona e delle malattie infettive di pari portata non possa essere contrastata circoscrivendo l’ambito delle misure di intervento alla semplice tutela dell’individuo o della stretta cerchia di appartenenza: il virus colpisce di più le persone vulnerabili, ma da queste si diffonde verso tutti gli altri soggetti. Difendere i più fragili significa perciò difendere le comunità nella loro interezza e integrità.
…e non dimentichiamo la scuola!
Il coronavirus ha avuto un impatto molto forte sulla quotidianità.
Molti docenti, in maniera volontaria e spontanea, hanno ritenuto indispensabile affrontare questa fase di emergenza con un’azione di compensazione e di sostegno agli alunni, in modo da adeguare la funzione pedagogica alla situazione di disagio emozionale vissuta da queste giovani generazioni, fornendo un supporto a volte didattico, spesso psicologico ad un corpo discente divenuto d’improvviso fragile, ansioso, apprensivo.
Ad un tale spontaneo contributo, che afferisce al senso di responsabilità della funzione quanto al conscio farsi parte di una collettività, si è risposto da parte dello Stato con l’esasperazione dei controlli, l’imposizione di metodologie e l’inasprirsi di un regime autoritario e verticistico, attuato mediante decreti e circolari da parte di funzionari che sono inclini a derogare alle normative esistenti.
Sull’esperienza conseguente all’epidemia in una prospettiva futura occorre riflettere sui contesti umani e strutturali in cui ci si è trovati ad operare e sulle difficoltà di effettivo recepimento e realizzazione che già la situazione attuale sta evidenziando. Se da un lato non è ipotizzabile un mero ritorno al passato, dall’altro è necessario programmare un futuro che superi le evidenti ed insostenibili contraddizioni del presente.
Commissione tecnica
Sono 950 i parlamentari in Italia, ma la Commissione nominata dal Presidente Giuseppe Conte è composta esclusivamente da tecnici, mentre sono assenti figure non solo rappresentative della società civile, ma in grado di fornire un contributo ed un approccio alla problematica che non sottenda necessariamente un confinamento dei saperi, una ulteriore conferma di una scissione sempre più profonda tra discipline umanistiche e scientifiche. È evidente dunque che continua a mancare una visione olistica delle conoscenze umane, la realizzazione di una interdisciplinarietà che non sia confinata alle teorizzazioni universitarie ma che entri una volta per tutte non solo nel fare ma nel modo di pensare della società e delle sue componenti. Una visione così settoriale conduce inevitabilmente ad una lettura dei processi storici in chiave deterministica e quasi esclusivamente si polarizza sui fattori economici. Se a giustificazione della scelta può essere invocata la situazione emergenziale, occorre riflettere sul costante e sempre più ravvicinato riproporsi delle “crisi” in quest’ultimo scorcio di secolo, e cominciare a comprendere che tali “crisi”, volute o casuali, sono consustanziali al sistema capitalistico o da esso sfruttate in un vero e proprio “modus procedendi”, che induce sistematicamente a trovare esclusive soluzioni di tipo economico ed a invocare la sospensione di tutte quelle garanzie politiche, sociali, economiche, culturali, ritenute impliciti ostacoli al dilagare del liberismo.
Prendere coscienza di questo significa accettare l’idea di una perenne emergenza e di conseguenza della necessità di conservazione degli istituti di rappresentatività e democrazia anche all’interno di task force operative, anzi proprio all’interno di esse, perché sarà in quella sede che si porranno le premesse per la “normalizzazione” postpandemica. In una tale prospettiva è la Politica a dover svolgere il ruolo cui essa è eticamente chiamata ovvero ad agire quale collante fra le componenti sociali, a rendere compatibili tra loro le diverse istanze, ad adottare gli opportuni strumenti di sintesi. È sempre alla politica che deve accollarsi la piena responsabilità delle azioni, rinunciando alla formula assolutoria delle “scelte dei tecnici”, i quali a loro volta ben consci del rischio esigono, in connivente intesa, la depenalizzazione aprioristica di ogni loro proposta. Affidarsi dunque unicamente alle soluzioni prospettate da una squadra di tecnici (peraltro individuati motu proprio dall’uomo solo al comando) con l’unico obiettivo del rilancio dell’economia, significa preordinare tali soluzioni a beneficio di ben individuabili destinatari.
A sostegno di un tale tesi possono addursi i contenuti delle proposte finora emerse, all’interno delle quali non è dato di rinvenire tagli alla difesa o ai sussidi ai combustibili fossili, mentre si prevede di aumentare ancora il debito pubblico, destinando ingenti capitali, senza le adeguate garanzie di restituzione, in prevalenza ai grandi gruppi industriali.
Soluzioni di uscita
Fino ad ora il Governo ha proceduto attraverso l’emanazione di DPCM che costituiscono strumenti normativi di carattere eccezionale, previsti dalla Costituzione per situazione emergenziali. Tali istituti infatti conducono alla sospensione dei diritti individuali e ad una interruzione del confronto parlamentare. Uno strumento legislativo dagli effetti così devastanti, pur giustificato dal sorgere di un pericolo non altrimenti contrastabile per la Nazione, contiene comunque in sé i germi di un potere esondante e del cui esercizio nessuno può farsi garante, a meno che ci si intenda porre al di fuori della legge, se non al di sopra della stessa. Ancora una volta si evidenzia la falla provocata, quasi a beffa in un sistema democratico, da un nemico di dimensioni infinitesime, per contrastare il quale erano stati in precedenza predisposti strumenti rilevatisi ampiamente inadeguati. Una Maginot sanitaria si potrebbe dire! Un motivo in più perché si torni nei tempi più rapidi possibili al ripristino del normale fluire dell’ordinamento democratico, adottando quelle misure che pur garantendo la salute della popolazione, non ne soffochino le fondamentali e inalienabili istanze fisiche e spirituali.
Infatti, lo stato di sorveglianza costante a cui la popolazione appare attualmente sottoposta non fa che mortificare ulteriormente il già indebolito stato emotivo individuale e collettivo, oltre che evocare anche solo a livello psicologico esperienze traumatiche non lontane nel tempo, traumi che hanno segnato il destino di questa Nazione. Inoltre, il conferimento di strumenti di polizia a pezzi dello Stato (o addirittura a soggetti che non ne fanno parte) senza specifiche competenze o in deroga al dettato costituzionale appare di una gravità e pericolosità intuitiva. Non sono rari i gravi casi di abusi nell’esercizio di tali compiti che i cittadini hanno già denunciato. E non solo! Il dispendio economico correlato a questa massiccia opera di vigilanza potrebbe certamente essere impiegato per risollevare un Paese letteralmente in ginocchio sotto il profilo economico. Allo stesso modo si ritiene necessario, visto il momento di grave emergenza, bloccare qualsiasi spesa in armamenti e strumenti di guerra. (ogni cacciabombardiere F35 costa circa 150 milioni di euro!)
Appare dunque deviante contrapporre sbrigativamente i modelli Sudcoreano e Italiano, soprattutto se si pensa all’aperta violazione dei diritti individuali, che invece la nostra Costituzione garantisce. Nel primo caso infatti si ha un tracciamento e controllo serrato dei movimenti anche attraverso la potenziale diffusione delle informazioni ad esso sotteso, mentre nel secondo si applica una severa restrizione alla libertà di movimento. In questi giorni, tra l’altro, l’Italia con l’adozione del sistema di tracciatura dei contatti denominata “Immuni” sembra voler mettere i cittadini nella difficile condizione di dover scegliere tra i due mali.
Esiste invece una terza via, che però richiede uno capovolgimento dell’approccio al problema e implica una sostanziale modifica dei nostri modelli economici e della visione e dell’organizzazione sociale. Una risposta adeguata e duratura alla pandemia, non in contrasto col dettato costituzionale, e in grado di restituirci la libertà individuale, dovrebbe consistere in un complesso di misure, da prevedersi all’interno di un articolato Protocollo Sanitario, differenziate per emergenze e distinte per situazioni e localizzazioni, e nella immediata messa a disposizione per tutta la popolazione di dispositivi di protezione adeguati (oggi ancora introvabili a distanza di oltre due mesi).
A seguire, l’adozione di politiche che prevedano il ripristino dell’intero sistema pubblico sanitario al fine di garantire l’accesso collettivo ai servizi anche mediante la loro razionalizzazione e diffusione nelle aree più marginali ed esposte, e che promuovano la prevenzione sanitaria (a partire dal superamento di tutte le strutture segreganti e istituzionalizzanti per anziani e persone con disabilità), l’educazione alimentare, e tutti gli interventi intesi a limitare al minimo le cause dell’inquinamento ambientale: riduzione drastica dei consumi e degli sprechi; riduzione fino all’azzeramento del consumo di suolo, delle risorse naturali e dei combustibili fossili; recupero, ripristino, protezione, gestione e tutela delle foreste, degli ambienti naturali e degli habitat selvatici; rilocalizzazione delle attività produttive, in particolare delle attività agricole e dell’allevamento, favorendo l’agricoltura estensiva e biologica. Obiettivi prioritari per tali politiche sono da ritenersi la promozione di stili di vita più sani, il potenziamento pubblico del sistema di educazione (istruzione e formazione), la garanzia di assicurazione dei servizi alla persona, e di adeguate forme di sostegno al reddito per le fasce più deboli o in difficoltà per la popolazione.
Inutile ricordare che la tutela della salute pubblica dovrebbe essere assicurata attraverso la totale revisione delle produzioni industriali al fine di assicurare che le stesse oltre a non creare danni ambientali ed inquinamento, non arrechino alcun danno diretto o indiretto alla salute della popolazione. In una tale ottica appare non dilazionabile la scadenza del Governo per l’abbandono dei combustibili fossili prevista dal PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) per il prossimo 2025.
Come pure indifferibile è l’intervento pubblico in attività volte al contrasto al dissesto idrogeologico, alla bonifica delle aree degradate dalle attività industriali, alla messa in sicurezza antisismica degli edifici pubblici e dei centri storici, al potenziamento della rete di trasporti pubblici e di infrastrutturazione cittadina quali acquedotti e sistema fognario, al sostegno finanziario dell’efficientamento e del risparmio energetico, alla messa in valore dello straordinario patrimonio ambientale e paesaggistico del nostro paese.
In sintesi, il sistema economico e produttivo dia luogo ad una vera riconversione ecologica di cui il pianeta ha bisogno e che non può essere ulteriormente dilazionata. Esiste in questo momento il concreto pericolo che la crisi economica causata dalla criticità sanitaria possa portare all’allentamento delle regole e delle prescrizioni previste dalla normativa ambientale. Sarebbe l’errore più grave che si potrebbe commettere perché significherebbe predisporre il terreno fertile per una nuova e più grave crisi sanitaria e ambientale. Noi auspichiamo invece che questa crisi porti tutti ad una seria riflessione sulla necessità ineludibile di sostituire, a partire dalla fase di transizione verso la normalità, l’attuale sistema economico, fondato sul consumo e sullo spreco, con uno che ponga al primo punto il rispetto dell’ambiente, del territorio e della salute dei cittadini.
E allo stesso modo della sanità e dell’ambiente anche la scuola ha bisogno di disporre di risorse e di un adeguato sostegno pubblico, ma soprattutto di una rivalutazione culturale del suo ruolo all’interno di una società che richiede in modo sempre più pressante conoscenza e formazione ma anche rispetto per l’individuo e per le sue peculiarità. Scuola, sanità, ambiente devono avere un ruolo centrale e strategico, pena il collasso dell’intero sistema sociale. Non sarà comunque sufficiente l’introduzione di nuovi strumenti ed un adeguamento del personale e delle strutture scolastiche, se non ci sarà il supporto di una visione complessiva che assuma a fondamento l’idea di una società nuova, più inclusiva, più giusta, che consideri sì le tecnologie strumento di progresso ma nello stesso tempo assuma a valore fondante le relazioni umane e con esse la valorizzazione delle diversità (degli individui, degli ecosistemi, delle realtà sociali), che non lasci spazio allo sfruttamento delle persone e dei sistemi ma sia governata dagli equilibri degli ecosistemi naturali e umani.
Graziano Bullegas, Presidente Italia Nostra Sardegna
Giorgio Canetto, Cesp Cobas - Centro Studi per la Scuola Pubblica Cagliari
Mauro Gargiulo, Segretario Italia Nostra Sardegna
Antonio Muscas, Attivista per l'ambiente e i diritti umani
Gisella Trincas, Presidente A.S.A.R.P.