mercoledì 29 dicembre 2021

La sfida di una vera transizione ecologica, cioè giusta

28 DICEMBRE 2021 A CURA DI  


FONTE: CITTÀ NUOVA

link alla prima parte dell'intervistA 

LINK ALLA SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA 

L’UE ha previsto un fondo dedicato alla transizione giusta per le aree più a rischio. L’occasione irripetibile in Italia per il Sulcis e per Taranto. Le proposte concrete a partire dalla conoscenza approfodita di un territorio che vede la presenza radicata di un movimento per la conversione economica integrale. Quella che comincia col ripudio delle fabbriche di armi. Seconda parte dell’intervista a Graziano Bullegas e Mauro Gargiulo, di Italia Nostra Sardegna

La transizione ecologica non può essere una formula di rito che giustifica ogni scelta “colorata” di verde. Si tratta di un cambio di paradigma che o sarà giusto o non sarà, come indica anche il nome (Just transition fund) dello specifico fondo dedicato dall’Unione europea per i territori più difficili come il Sulcis in Sardegna e Taranto in Puglia.

Con Graziano Bullegas e Mauro Gargiulo, di Italia Nostra Sardegna, abbiamo avviato un percorso di approfondimento per cercare di rispondere ad una domanda: cosa impedisce alla Sardegna di diventare un esempio mondiale di un territorio alimentato esclusivamente da fonti energetiche rinnovabili? Teoricamente ci sarebbero tutte le condizioni, come ci ha detto il professor Cao, amministratore unico del centro di ricerca Crs4 attivo nell’isola da oltre 30 anni.

A prescindere dal fabbisogno energetico di privati e famiglie che abbiamo già affrontato nella prima parte dell’intervista arriviamo ora al punto più difficile e cioè quello dell’attività economica più adatta alla Sardegna.

 

Quale prospettiva economica è, a vostro parere, auspicabile nella Regione a livello industriale oltre che nel settore turistico e agropastorale?

Per poter rispondere occorre una premessa necessaria: la Sardegna si è nutrita di falsi miti. Prima l’industria pesante, poi il turismo di élites, infine quello di massa. Modelli di sviluppo alieni, inconciliabili con un passato che permea ancora nel profondo il sentire collettivo. Ne è scaturita una modernità aliena. È sostenibile un tale modello di sviluppo? La grande industria lascia come retaggio disoccupazione e inquinamento. L’esiguità temporale del turismo di massa perpetua quella estraneità al territorio incapace di radicamento. Dall’una e dall’altra ne scaturirà l’irriconoscibilità dei luoghi, segnati da ruderi di cattedrali industriali e da villaggi senescenti. Cambiare il corso di questi eventi in assenza di una critica presa di coscienza è impresa disperata. Si pensi a solo, a titolo di esempio, all’ultimo Piano casa della Regione Sardegna, che vede negli incrementi volumetrici sulle coste il rilancio dell’economia isolana. E come non riandare con la mente alle, da noi osteggiate, illusioni conseguenti all’avvento della Chimica verde, col carciofo posto a simbolo di un improbabile connubio agroindustriale.

Quali alternative sono quindi realmente praticabili?

Oggi ci aspetta, come preludio ineludibile, la bonifica dei siti industriali, alcuni dei quali dichiarati Siti di interesse nazionale (SIN). Occorrerà poi ripensare a riconvertire i poli industriali dismessi in una molteplicità produttiva fondata sulla piccola e media impresa che si radichi sulle risorse locali e sia ancorata al territorio. Mutuando quel linguaggio ecologico che ci è caro, occorre che queste realtà germoglino ed attecchiscano. Solo così sarà possibile arrestare quei fenomeni di spopolamento e di emigrazione, che annichiliscono intere comunità e desertificano il territorio sardo. Valga, a titolo di esempio, un’idea di riconversione di Porto Torres in grado di  coniugare la rinascita turistico-culturale della cittadina con il sorgere di un’attività cantieristica navale da diporto legata alla portualità di cui dispone.

Come pure a più ampia scala appare praticabile un’integrazione tra agricoltura Bio e di qualità con attività di trasformazione in loco dei prodotti della terra e degli allevamenti.

 

Ma quest’ultima prospettiva “bucolica” non appare troppo teorica?

Niente affatto. Non proponiamo soluzioni aleatorie, ma suggeriamo progetti concreti desumibili dall’analisi delle specifiche realtà, con il coinvolgimento attivo delle comunità, nel tentativo di dare concretezza alla loro idea di futuro sostenibile. Il tempo delle scelte imposte dall’alto è ormai scaduto ed inaccettabile appare l’ostinata persistenza dell’estrattivismo capitalistico, che permea di sé oggi perfino il campo della produzione energetica delle rinnovabili. I giovani sardi sembrano aver appreso la lezione ed hanno competenze e determinazione per puntare ad una transizione olistica. Occorre sostenerli in tale sforzo sia sotto l’aspetto istituzionale che economico. Tutto ciò dovrebbe costituire un dovere imprescindibile dopo decenni di sprechi e fallimenti. In una tale prospettiva, agricoltura e turismo saranno i due fulcri su cui puntare le leve per uno sviluppo davvero sostenibile e non transitorio.

 

Quali sono gli assi possibili di intervento con i fondi previsti, in maniera particolare per il Sulcis, dal Just transition fund?

Il fondo per la transizione giusta potrebbe rappresentare il punto di svolta di un territorio che, dagli anni ’60, ha basato la propria economia sull’industria energivora e fortemente inquinante e che negli ultimi trent’anni vive di assistenza e di sussidi in attesa della ripresa delle stesse attività e delle agognate bonifiche del territorio.

I finanziamenti europei del JTF mirano appunto a diversificare e modernizzare l’economia dei territori maggiormente colpiti dalla transizione climatica sostenendo gli investimenti in settori quali la connettività digitale, le tecnologie per l’energia pulita, la riduzione delle emissioni, il recupero dei siti industriali, la riqualificazione professionale dei lavoratori. Obbiettivi sacrosanti, ma che sono fortemente contrastanti con le scelte politico-economiche attualmente in campo.

A cosa vi riferite?

È emblematica la ripresa dell’attività della raffineria di bauxite, con annessa nuova centrale termoelettrica a gas (un combustibile fossile e altamente climalterante) e della fonderia per la produzione di alluminio.

Sullo stesso piano i sussidi adottati per sostenere gli alti costi energetici della svizzera Glencore che a Portovesme estrae zinco e piombo dai fumi di acciaieria e produce imponenti montagne di rifiuti speciali.

Con una approssimata pubblicizzazione e condivisione degli obbiettivi sono stati proposti per il JTF 200 progetti tra i più svariati, molti assolutamente fuori tema. Senza nessun raccordo o regia comune ogni ente, sindacato, comitato etc. ha proposto il proprio progetto. Di questi ne sono stati selezionati 23, ma al momento non si conosce quali siano e se rispecchino i requisiti imposti dall’Europa.

Il pericolo, come avvenuto nel passato, è che anche la portata innovativa del Just Transition Fund venga vanificata dall’incapacità del territorio di autodeterminarsi. Basti pensare alle inutili opere previste dal Piano Sulcis, alcune per fortuna fermate per tempo dalla protesta popolare, e al miliardo di euro tuttora inutilizzato, per nutrire seri dubbi sull’uso razionale dei nuovi fondi.

 

Quindi quali sono le scelte da fare oggi?

Le scelte da fare oggi devono rappresentare una rottura netta con quelle fallimentari del passato, puntando in particolar modo verso una vera riconversione del territorio. Attraverso politiche di supporto alle attività primarie e agli attrattori capaci di creare occupazione diffusa e sostenibile: la ricchezza della storia mineraria e l’importante presenza di bellezze naturali e paesaggistiche rappresentano una concreta opzione. Il parco geominerario, trasformatosi negli anni nell’ennesimo poltronificio-carrozzone, nasceva per mettere a valore queste potenzialità.

Il Sulcis ospita l’unico arcipelago italiano privo di un’Area Marina Protetta. Questo significa scarsa protezione e progressivo impoverimento del mare. La sua istituzione garantirebbe una corretta tutela ambientale dell’arcipelago e della sua biodiversità, il ripopolamento della fauna ittica e l’attivazione di significativi ritorni economici per gli operatori del mare e per l’intera economia turistica delle comunità residenti.

Nel Sulcis iglesiente il comparto agro-alimentare di qualità se ben supportato può crescere ben oltre il suo livello attuale. Stiamo parlando di attività in grado di dare reddito, occupazione, benessere a grandi comunità territoriali.

 

Come si spiega invece la presenza in quel territorio della Rwm (fabbrica di armi di proprietaria della multinazionale Rheinmetall)?

Si spiega con l’incapacità della classe dirigente di trovare soluzioni credibili alle emergenze di occupazione e di reddito e agli altri annosi problemi di natura economica e sociale che attanagliano il sud ovest della Sardegna. Avviene così che la scelta di insistere nell’esercitare un vero e proprio accanimento terapeutico a favore delle imprese in crisi, anche quando le prospettive di mercato sono improbabili o nulle, creano il terreno favorevole per l’insediamento di attività industriali pericolose sotto il profilo della sicurezza sanitaria e ambientale, oltreché umanamente e moralmente non accettabili.

Possiamo affermare che la fabbrica di bombe ed esplosivi insediatasi a Domusnovas-Iglesias, con l’entusiastico sostegno di enti e istituzioni locali e regionali, sia appunto il risultato delle errate politiche economiche e ambientali dell’ultimo mezzo secolo che hanno impoverito l’intera comunità.

Rispetto alle industrie che bruciano risorse pubbliche preziose e, creando false aspettative, consumano futuro, la consociata italiana della multinazionale tedesca Rheinmetall ha il vantaggio di non chiedere soldi pubblici e di avere concrete prospettive per il futuro, grazie alle numerose guerre in giro per il mondo che garantiscono ingenti profitti ai costruttori di armi.

Esistono segni che invitano a sperare?

Il Just Transition Fund, così come il PNRR e lo stesso Piano Sulcis, avrebbero dovuto segnare e possono ancora determinare una svolta in termini di pianificazione economica e industriale, garantire una vera e propria riconversione e riqualificazione verso uno sviluppo “green“ e sostenibile di un territorio martoriato dall’inquinamento con una particolare attenzione verso le nuove sfide sociali, economiche e ambientali. 

La nascita della rete “WarFree – Liberu de sa gherra”, col suo obiettivo di proporre una nuova economia, civile, sostenibile e libera dalla guerra, che possa dare lavoro degno sul territorio, offrendo occasioni di crescita e strumenti di promozione ad imprese vecchie e nuove basate sulla sostenibilità etico-ambientale, rappresenta un buon inizio per affrontare questa sfida. Altrettanto positive e degne di attenzione sono alcune iniziative di giovani che, dopo aver lottato contro l’esproprio della propria terra da parte degli speculatori delle energie rinnovabili, si stanno organizzando per avviare attività agricole di nicchia, che oltre a garantire il proprio futuro, indicano la strada da percorrere per rendersi liberi dall’insalubre economia dell’assistenza.

 

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giovedì 16 dicembre 2021

Gli amministratori di Iglesias sconfessano il deliberato del Consiglio Comunale

I giorni scorsi lo studio legale Pubusa ha inoltrato all’amministrazione comunale di Iglesias formale richiesta affinché provveda all’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato n.7490/2021 del novembre scorso mediante una sollecita adozione delle ordinanze di sospensione dei lavori e di demolizione in relazione alle opere di ampliamento dello stabilimento realizzate dalla soc. RWM nel territorio comunale di Iglesias. 


La sentenza del Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso presentato da Italia Nostra, Assotziu Consumadoris Sardigna e il sindacato USB, annulla il Provvedimento Unico n. 82 del 9.11.2018 di autorizzazione dei reparti R200 ed R210 e la Delibera della Giunta Regionale n.3/26 del 15.1.2019 che stabilisce di non assoggettare a VIA il nuovo Campo Prove 140.

Contestualmente il testo della sentenza e della richiesta presentata dai legali è stato trasmesso al Prefetto di Cagliari, alla Procura della Repubblica, alla Soprintendenza BB.CC., alla Direzione Reg.le Urbanistica e Vigilanza Edilizia, al Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale e a Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, affinché, ognuno per le proprie competenze vigilino per una effettiva e solerte esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato.

Apprendiamo inoltre dalle dichiarazioni dell’AD della RWM Italia che il nuovo Campo Prove 140, dove si effettuano i test per verificare l’efficacia degli esplosivi prodotti nello stabilimento, è in funzione già dallo scorso febbraio nonostante si tratti di un reparto del tutto privo del Piano di Emergenza Esterna e dallo scorso 17 novembre privo di qualsiasi autorizzazione. 



Spiace constatare, leggendo gli articoli di stampa dei giorni scorsi, che nonostante le molte anomalie e le tante illegittimità commesse nella procedura di rilascio delle autorizzazioni,  il comune di Iglesias anziché emettere le ordinanze di blocco delle attività dei nuovi reparti già operativi, la sospensione dei lavori eventualmente in corso e la demolizione dei manufatti, abbia incaricato gli stessi uffici di attivarsi per rilasciare nuove autorizzazioni in sostituzione di quelle dichiarate illegittime dal Consiglio di Stato. 

Un atteggiamento dell’amministrazione comunale della città mineraria del tutto incongruente rispetto all’ordine del giorno approvato dal Consiglio Comunale di Iglesias a luglio del 2017 col quale si esprimeva la volontà della Città di Iglesias di porsi come luogo di costruzione di rapporti internazionali di pace e solidarietà.

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domenica 12 dicembre 2021

La transizione energetica presa sul serio, il caso Sardegna

Testo pubblicato sulla rivista CITTÀ NUOVA il 10 DICEMBRE 2021 

A CURA DI CARLO CEFALONI 

     

Passa dalla Sardegna la possibilità di una vera transizione ecologica basata sul ricorso alle fonti rinnovabili di energia. Quali sono gli ostacoli che impediscono di realizzare questo importante obiettivo strategico  per il nostro Paese?  Analisi e approfondimenti nell’intervista a Graziano Bullegas e Mauro Gargiulo, di Italia Nostra Sardegna

La transizione ecologica comporta scelte strategiche importanti sul piano delle fonti energetiche e la Sardegna rappresenta, in Italia, un caso esemplare per capire l’orientamento reale che il governo prenderà per realizzare il Pnrr secondo le indicazioni definite a livello di Ue.

Abbiamo già intervistato il professor Giacomo Cao, amministratore del Crs4, centro di eccellenza nel campo della ricerca in Sardegna, secondo il quale l’intera isola presenta le caratteristiche per realizzare l’autonomia energetica facendo ricorso alle sole fonti rinnovabili. Un fatto che, se realizzato davvero, rappresenterebbe un notevole vantaggio competitivo sia per l’economia che per l’equilibrio ambientale di un territorio che ha subito, nel tempo, troppe aggressioni. Dalla cementificazione delle coste alla gestione irresponsabile dei poligonimilitari senza dimenticare la possibilità di diventare sede per lo stoccaggio delle scorie radioattive delle centrali nucleari dismesse.

Cosa impedisce a questa isola dalla forte identità culturale di diventare la punta più avanzata del nostro Paese nel campo delle energie rinnovabili?  Abbiamo, perciò, continuato ad approfondire quanto emerso nell’intervista al professor Cao con Graziano Bullegas e Mauro Gargiulo, rispettivamente presidente e delegato per le questioni energetiche del consiglio regionale di Italia Nostra Sardegna.

L’associazione è stata di recente protagonista, assieme al sindacato Usb e ad Assotziu Consumadoris Sardigna, di una importante vittoria davanti al Consiglio di Stato contro le pretese della fabbrica Rwm che intendeva estendere l’area della sua attività produttiva senza avere assoggettato a preventiva valutazione di impatto ambientale i nuovi impianti come previsto per la fabbricazione di armi ed esplosivi come quelle prodotte dalla società controllata della tedesca Rheinmetall che nel Sulcis iglesiente produce armi pesanti destinate al mercato internazionale.

Passare l’esame del massimo organo amministrativo italiano, come sa ogni tipo di associazione della società civile, comporta un grande margine di incertezza ed espone a notevoli spese in caso di perdita in giudizio.  Bisogna essere, perciò, ostinati e convinti della buona causa per esporsi ad un contenzioso nei confronti di una grande multinazionale. Cerchiamo quindi di capire con i rappresentanti di Italia Nostra Sardegna il loro parere sull’ emblematica questione energetica di una delle due grandi isole italiane poste nel Mar Mediterraneo.



Se come afferma il direttore del Crs4, la Sardegna può essere l’esempio della autosufficienza energetica basata su fonti rinnovabili, cosa si oppone a tale possibile scenario nell’Isola?

Partiamo dai numeri. I dati Terna (società italiana operatrice delle reti di trasmissione dell’energia elettrica controllata da Cassa Depositi e Prestiti) del 2020 ci dicono che le Rinnovabili in Sardegna soddisfano il 41% della richiesta di energia elettrica.  Se si considera il consumo di tre settori aggregati, quali agricoltura, servizi e residenza (pari al 65% del totale), le rinnovabili potrebbero oggi soddisfare il 75% di un tale consumo. Appena il 25% ci separa dunque dalla parità energetica con le rinnovabili per i tre settori aggregati.

Resterebbe escluso il settore industriale che, da solo, impegna il 45% dell’intera produzione elettrica isolana. Un’incidenza così rilevante non è conseguenza della capacità produttiva o del numero delle aziende, ma della concentrazione in poli fortemente energivori.

Come si può colmare questo divario?

La differenza potrebbe essere ricoperta impedendo il proliferare indiscriminato dei grandi impianti fotovoltaici ed eolici, con conseguenti impatti ambientali e paesaggistici non sostenibili, e ricorrendo a modelli di produzione diffusa ed autoconsumo, già presenti con il fotovoltaico domestico.

Un ulteriore contributo potrebbe essere poi fornito dalla diffusione di quelle forme associate quali sono le Comunità energetiche e l’Autoconsumo collettivo (vedasi il recente decreto legislativo n.199 del 2021 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili).

Le rinnovabili trovano infatti applicazione ottimale in un sistema produzione-consumo che si ispiri al principio della cooperazione produttiva e della collettivizzazione dei consumi. Si tratta, dunque, di un percorso virtuoso che ha come esito finale la democrazia energetica, non un laissez-faire alla speculazione per l’accaparramento delle fonti. Le condizioni, perché si porti a compimento una tale svolta, sono presenti nel contesto sociale sardo a bassa densità demografica e con forte coesione interna.  Inoltre un tale modello, se dotato di adeguati storages (sistemi di accumulo, ndr) potrebbe andare a costituire una risorsa economica per le comunità da destinare a fini sociali.

Ma esistono casi concreti del genere già in funzione?

Certo. In Sardegna ci sono alcuni comuni, come Berchidda, Benetutti, Villanovaforru ed Ussaramanna, che hanno intrapreso un tale percorso virtuoso. Ma vi è ancora da aggiungere al novero delle possibilità, l’apporto dei potenziali parchi fotovoltaici ed eolici da installarsi in quelle aree definite idonee dalla normativa citata (cave dismesse, aree agricole improduttive, zone industriali, ecc.) che il MITE (Ministero per la transizione ecologica) si appresta ad individuare con uno specifico decreto.

Come cambia il discorso con l’energia richiesta dal settore industriale?

Nel territorio sardo è presente un’industria fortemente energivora (per quasi metà della produzione) ed inquinante che condiziona sia l’attuale modello di produzione elettrica (articolato sui tre poli di Porto Torres, Portoscuso e Sarroch), sia quello di distribuzione, determinando criticità nella rete. Peraltro in un tale tipo di industria la produzione di energia elettrica dovrebbe costituire un asset strategico intrinseco al processo industriale e con esso intimamente connesso. Non si comprende perciò il pesante condizionamento che viene esercitato nei confronti della produzione elettrica da rinnovabili e la persistente richiesta di scaricarne i costi non sostenibili sulla collettività. Le contraddizioni derivanti da un tale assetto sono la causa principale della mancata chiusura delle Centrali a carbone, per ora rinviata al 2030.

In questi casi, come in altre situazioni simili nel Paese, si ricorre al metano che viene definito un fonte di transizione per il passaggio dal carbone alle rinnovabili. Cosa accade in Sardegna?

Pensiamo che sia proprio il metano a giocare un ruolo determinante nel ritardare la possibilità di arrivare all’obiettivo realizzabile di un’isola free carbon (libera dal carbonio). Nonostante il dissenso delle associazioni ambientaliste, il Piano energetico ed ambientale sardo (PEARS 2015) individuava tale combustibile fossile come fonte di transizione. Ne è da allora scaturito un duro confronto con lo Stato sulla mancata realizzazione delle infrastrutture (con il coinvolgimento della Snam) e sulla determinazione dei prezzi al consumo ancora oggi irrisolto. Il metano è un gas inquinante e climalterante il cui utilizzo appariva, già all’epoca, irrazionale per gli incolmabili ritardi accumulati dall’Isola. Sussistevano dunque inoppugnabili elementi ostativi che suggerivano di accelerare la scelta radicale dell’elettrificazione dei consumi. Gli stakeholders delle fossili hanno però perseverato nell’azione lobbistica all’interno del Palazzo, al punto che ancora oggi, ormai a ridosso dell’abbandono delle fonti fossili e con il prezzo dei gas alle stelle, la Regione Sardegna si ostina a non voler rivedere le proprie posizioni.



sull'argomento

il link a Città Nuova 

il link alla seconda parte dell'intervista

YouTube - L'altra faccia della transizione ecologica

Italia Nostra - La questione energetica e la Sardegna: è ora di invertire la rotta