28 DICEMBRE 2021
FONTE: CITTÀ NUOVA
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A prescindere dal fabbisogno energetico di privati e famiglie che abbiamo già affrontato nella prima parte dell’intervista arriviamo ora al punto più difficile e cioè quello dell’attività economica più adatta alla Sardegna.
Quale prospettiva economica è, a vostro parere, auspicabile nella Regione a livello industriale oltre che nel settore turistico e agropastorale?
Per poter rispondere occorre una premessa necessaria: la Sardegna si è nutrita di falsi miti. Prima l’industria pesante, poi il turismo di élites, infine quello di massa. Modelli di sviluppo alieni, inconciliabili con un passato che permea ancora nel profondo il sentire collettivo. Ne è scaturita una modernità aliena. È sostenibile un tale modello di sviluppo? La grande industria lascia come retaggio disoccupazione e inquinamento. L’esiguità temporale del turismo di massa perpetua quella estraneità al territorio incapace di radicamento. Dall’una e dall’altra ne scaturirà l’irriconoscibilità dei luoghi, segnati da ruderi di cattedrali industriali e da villaggi senescenti. Cambiare il corso di questi eventi in assenza di una critica presa di coscienza è impresa disperata. Si pensi a solo, a titolo di esempio, all’ultimo Piano casa della Regione Sardegna, che vede negli incrementi volumetrici sulle coste il rilancio dell’economia isolana. E come non riandare con la mente alle, da noi osteggiate, illusioni conseguenti all’avvento della Chimica verde, col carciofo posto a simbolo di un improbabile connubio agroindustriale.
Quali alternative sono quindi realmente praticabili?
Oggi ci aspetta, come preludio ineludibile, la bonifica dei siti industriali, alcuni dei quali dichiarati Siti di interesse nazionale (SIN). Occorrerà poi ripensare a riconvertire i poli industriali dismessi in una molteplicità produttiva fondata sulla piccola e media impresa che si radichi sulle risorse locali e sia ancorata al territorio. Mutuando quel linguaggio ecologico che ci è caro, occorre che queste realtà germoglino ed attecchiscano. Solo così sarà possibile arrestare quei fenomeni di spopolamento e di emigrazione, che annichiliscono intere comunità e desertificano il territorio sardo. Valga, a titolo di esempio, un’idea di riconversione di Porto Torres in grado di coniugare la rinascita turistico-culturale della cittadina con il sorgere di un’attività cantieristica navale da diporto legata alla portualità di cui dispone.
Come pure a più ampia scala appare praticabile un’integrazione tra agricoltura Bio e di qualità con attività di trasformazione in loco dei prodotti della terra e degli allevamenti.
Ma quest’ultima prospettiva “bucolica” non appare troppo teorica?
Niente affatto. Non proponiamo soluzioni aleatorie, ma suggeriamo progetti concreti desumibili dall’analisi delle specifiche realtà, con il coinvolgimento attivo delle comunità, nel tentativo di dare concretezza alla loro idea di futuro sostenibile. Il tempo delle scelte imposte dall’alto è ormai scaduto ed inaccettabile appare l’ostinata persistenza dell’estrattivismo capitalistico, che permea di sé oggi perfino il campo della produzione energetica delle rinnovabili. I giovani sardi sembrano aver appreso la lezione ed hanno competenze e determinazione per puntare ad una transizione olistica. Occorre sostenerli in tale sforzo sia sotto l’aspetto istituzionale che economico. Tutto ciò dovrebbe costituire un dovere imprescindibile dopo decenni di sprechi e fallimenti. In una tale prospettiva, agricoltura e turismo saranno i due fulcri su cui puntare le leve per uno sviluppo davvero sostenibile e non transitorio.
Quali sono gli assi possibili di intervento con i fondi previsti, in maniera particolare per il Sulcis, dal Just transition fund?
Il fondo per la transizione giusta potrebbe rappresentare il punto di svolta di un territorio che, dagli anni ’60, ha basato la propria economia sull’industria energivora e fortemente inquinante e che negli ultimi trent’anni vive di assistenza e di sussidi in attesa della ripresa delle stesse attività e delle agognate bonifiche del territorio.
I finanziamenti europei del JTF mirano appunto a diversificare e modernizzare l’economia dei territori maggiormente colpiti dalla transizione climatica sostenendo gli investimenti in settori quali la connettività digitale, le tecnologie per l’energia pulita, la riduzione delle emissioni, il recupero dei siti industriali, la riqualificazione professionale dei lavoratori. Obbiettivi sacrosanti, ma che sono fortemente contrastanti con le scelte politico-economiche attualmente in campo.
A cosa vi riferite?
È emblematica la ripresa dell’attività della raffineria di bauxite, con annessa nuova centrale termoelettrica a gas (un combustibile fossile e altamente climalterante) e della fonderia per la produzione di alluminio.
Sullo stesso piano i sussidi adottati per sostenere gli alti costi energetici della svizzera Glencore che a Portovesme estrae zinco e piombo dai fumi di acciaieria e produce imponenti montagne di rifiuti speciali.
Con una approssimata pubblicizzazione e condivisione degli obbiettivi sono stati proposti per il JTF 200 progetti tra i più svariati, molti assolutamente fuori tema. Senza nessun raccordo o regia comune ogni ente, sindacato, comitato etc. ha proposto il proprio progetto. Di questi ne sono stati selezionati 23, ma al momento non si conosce quali siano e se rispecchino i requisiti imposti dall’Europa.
Il pericolo, come avvenuto nel passato, è che anche la portata innovativa del Just Transition Fund venga vanificata dall’incapacità del territorio di autodeterminarsi. Basti pensare alle inutili opere previste dal Piano Sulcis, alcune per fortuna fermate per tempo dalla protesta popolare, e al miliardo di euro tuttora inutilizzato, per nutrire seri dubbi sull’uso razionale dei nuovi fondi.
Quindi quali sono le scelte da fare oggi?
Le scelte da fare oggi devono rappresentare una rottura netta con quelle fallimentari del passato, puntando in particolar modo verso una vera riconversione del territorio. Attraverso politiche di supporto alle attività primarie e agli attrattori capaci di creare occupazione diffusa e sostenibile: la ricchezza della storia mineraria e l’importante presenza di bellezze naturali e paesaggistiche rappresentano una concreta opzione. Il parco geominerario, trasformatosi negli anni nell’ennesimo poltronificio-carrozzone, nasceva per mettere a valore queste potenzialità.
Il Sulcis ospita l’unico arcipelago italiano privo di un’Area Marina Protetta. Questo significa scarsa protezione e progressivo impoverimento del mare. La sua istituzione garantirebbe una corretta tutela ambientale dell’arcipelago e della sua biodiversità, il ripopolamento della fauna ittica e l’attivazione di significativi ritorni economici per gli operatori del mare e per l’intera economia turistica delle comunità residenti.
Nel Sulcis iglesiente il comparto agro-alimentare di qualità se ben supportato può crescere ben oltre il suo livello attuale. Stiamo parlando di attività in grado di dare reddito, occupazione, benessere a grandi comunità territoriali.
Come si spiega invece la presenza in quel territorio della Rwm (fabbrica di armi di proprietaria della multinazionale Rheinmetall)?
Si spiega con l’incapacità della classe dirigente di trovare soluzioni credibili alle emergenze di occupazione e di reddito e agli altri annosi problemi di natura economica e sociale che attanagliano il sud ovest della Sardegna. Avviene così che la scelta di insistere nell’esercitare un vero e proprio accanimento terapeutico a favore delle imprese in crisi, anche quando le prospettive di mercato sono improbabili o nulle, creano il terreno favorevole per l’insediamento di attività industriali pericolose sotto il profilo della sicurezza sanitaria e ambientale, oltreché umanamente e moralmente non accettabili.
Rispetto alle industrie che bruciano risorse pubbliche preziose e, creando false aspettative, consumano futuro, la consociata italiana della multinazionale tedesca Rheinmetall ha il vantaggio di non chiedere soldi pubblici e di avere concrete prospettive per il futuro, grazie alle numerose guerre in giro per il mondo che garantiscono ingenti profitti ai costruttori di armi.
Esistono segni che invitano a sperare?
Il Just Transition Fund, così come il PNRR e lo stesso Piano Sulcis, avrebbero dovuto segnare e possono ancora determinare una svolta in termini di pianificazione economica e industriale, garantire una vera e propria riconversione e riqualificazione verso uno sviluppo “green“ e sostenibile di un territorio martoriato dall’inquinamento con una particolare attenzione verso le nuove sfide sociali, economiche e ambientali.
La nascita della rete “WarFree – Liberu de sa gherra”, col suo obiettivo di proporre una nuova economia, civile, sostenibile e libera dalla guerra, che possa dare lavoro degno sul territorio, offrendo occasioni di crescita e strumenti di promozione ad imprese vecchie e nuove basate sulla sostenibilità etico-ambientale, rappresenta un buon inizio per affrontare questa sfida. Altrettanto positive e degne di attenzione sono alcune iniziative di giovani che, dopo aver lottato contro l’esproprio della propria terra da parte degli speculatori delle energie rinnovabili, si stanno organizzando per avviare attività agricole di nicchia, che oltre a garantire il proprio futuro, indicano la strada da percorrere per rendersi liberi dall’insalubre economia dell’assistenza.
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