Le associazioni ambientaliste, nel corso dei decenni, hanno espresso contrarietà e depositato osservazioni in vari procedimenti di V.i.a. in relazione a progetti di produzione di energia elettrica da fonte fossile, nonché in casi controversi di biomasse, termo-solare ed eolico. Le osservazioni partono sempre dal presupposto che le realizzazioni degli impianti devono avere una prospettiva di sostenibilità ambientale e paesaggistica che al contempo devono assicurare la tutela della salute e il benessere dei cittadini piuttosto che la remunerazione economica dei proponenti.
I dati diffusi dell’AIE (Agenzia internazionale dell’energia) sulla mortalità nel mondo dovuta all’inquinamento dell’aria da fonti energetiche a combustibili fossili parlano chiaro. I veri imputati sono carbone e petrolio e causano milioni di morti premature ogni anno. Ne consegue che le associazioni ambientaliste ed ISDE- Medici per l’Ambiente sostengono la chiusura delle centrali a carbone in funzione in Sardegna entro il 2025, in linea con altri Paesi europei, dicendo addio ad una fonte fossile causa in Italia di circa 8 morti a settimana e di una spesa sanitaria annua calcolata di 1,4 miliardi di euro.
Le associazioni ambientaliste ed ISDE sostengono con forza l’assoluta necessità della chiusura delle centrali a carbone in funzione in Sardegna entro il 2025 in attuazione del decreto del ministero dell'Ambiente 430 del 22 novembre 2018 con l’obiettivo globale di uscire dall’era fossile, entro i prossimi 20 anni, per transitare verso un sistema mondiale di produzione di energia basato sulle rinnovabili. Questo risponde a quanto previsto dall’Accordo di Parigi sul Clima che punta a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi C.
Le associazioni ambientaliste ed ISDE ricordano che, attualmente (dati piano energetico ambientale, ( https://www.regione.sardegna.it/sardegnaenergia/pears/) in Sardegna abbiamo i seguenti dati relativi alle fonti di produzione energetica: 78% termoelettrica, 11% eolica, 5% bioenergie, 5% fotovoltaico, 1% idroelettrico. Fonte termoelettrica: 42% carbone; 49% derivati dal petrolio; 9% biomasse. Altresì si rileva una limitata riduzione delle emissioni in atmosfera di anidride carbonica solo con la sostituzione, in molte città, dell’illuminazione pubblica con lampade led ad efficienza energetica, ma non è riscontrabile una coerente politica di riduzione della produzione da fonte fossile conseguente alla stessa percentuale di produzione da F.E.R. (Fonte energetica rinnovabile). Si constata l’orientamento verso il metano (ritenuta fonte fossile di transizione) ma sono presenti eclatanti contraddizioni: si produce oltre il 46%d i energia elettrica in più rispetto al fabbisogno (con i conseguenti costi ambientali e sanitari), ma cittadini ed imprese pagano oltre il 30% in più l’energia utilizzata rispetto ad altre regioni italiane. Risulta difficile credere che il metano possa consentire la riduzione della bolletta dei sardi e delle imprese, più verosimile potrebbe essere l’istituzione di una nuova servitù energetica per un ulteriore sovrapproduzione da esportare attraverso i cavi sottomarini.
Le associazioni ambientaliste ed ISDE sottolineano che la politica ambientale dell’Europa e le stesse linee di indirizzo del Piano Energetico Regionale prevedono di contribuire all’obiettivo di “de-carbonizzare” l’economia riducendo entro il 2030 di almeno il 40% le emissioni di gas a effetto serra rispetto ai valori registrati nel 1990.
Le associazioni ambientaliste ed ISDE ribadiscono contrarietà all’utilizzo del carbone e delle altre fonti fossili ed esplicitano il proprio favore alla Fonti Energetiche Rinnovabili a condizione che esse si realizzino in aree e suoli industriali dismessi che devono essere, preliminarmente, bonificati non già con denaro pubblico, ma con quello di chi ha inquinato. Purtroppo assistiamo ancora oggi alla solita visione miope e dettata da compromessi che si rifiuta di prendere atto del fallimento del modello industriale legato alla produzione petrolchimica sarda e destinato a coprire una fascia sempre più esigua dell’economia isolana, a fronte dell’inarrestabile avanzare delle attività primarie e terziarie. Questa ostinata volontà di tenere in piedi un sistema produttivo industriale anacronistico, contrastante con i modelli virtuosi e sostenibili, oltre a scelte incoerenti porta al dispendio di risorse umane ed economiche che potrebbero essere meglio indirizzate verso il settore della conoscenza e dell’innovazione. Tali ambiziosi obbiettivi sono raggiungibili attraverso l’abbandono delle attuali metodologie di produzione energetica affidate ai grandi impianti utilizzatori di combustibili fossili. È arrivato il momento di abbandonare l’attuale sistema energetico piramidale per favorire la democrazia energetica attraverso smartg rid, efficientamento e risparmio energetico, autoproduzione con un ruolo da protagonisti per i piccoli e medi produttori-consumatori (i prosumers così come individuati nelle politiche economiche europee di settore). Favorire quindi la diffusione capillare della produzione da FER per decentrare e democratizzare il sistema di produzione garantendo un'equa distribuzione della ricchezza e nello stesso tempo combattere la speculazione energetica delle rinnovabili.
Le associazioni ambientaliste auspicano per la Sardegna l’autoproduzione da fonte rinnovabile dell’energia come accade già in alcuni comuni sardi (come recentemente documentato dalla trasmissione Rai Presa diretta di Riccardo Iacona) e, in considerazione del fatto che il maggiore consumo energetico è di gran lunga quello industriale, la trasformazione del sistema economico attuale verso quello circolare anche con la riconversione del polo dell’alluminio primario di Portoscuso (Alcoa –Eurallumina) in quello dell’alluminio riciclato notevolmente meno energivoro e inquinante.
L’alluminio, infatti, è materiale completamente riciclabile e riutilizzabile all’infinito per la produzione di oggetti anche sempre differenti. L’Italia (insieme alla Germania) è oggi il terzo Paese al mondo per la produzione di alluminio riciclato, dopo gli Stati Uniti e il Giappone.
Attualmente ben il 90% dell’alluminio utilizzato in Italia (il 50% nel resto dell’Europa occidentale) è alluminio riciclato e ha le stesse proprietà e qualità dell’alluminio originario: viene impiegato nell’industria automobilistica, nell’edilizia, nei casalinghi e per nuovi imballaggi.
La raccolta differenziata, il riciclo e recupero dell’alluminio apportano numerosi benefici alla Collettività in termini economici perché il riciclo dell’alluminio è un’attività particolarmente importante per l’economia del nostro Paese, storicamente carente di materie prime, in termini energetici, perchè permette di risparmiare il 95% dell’energia necessaria a produrlo dalla materia prima (1), nonchè sotto il profilo ambientale in quanto abbatte drasticamente le emissioni inquinanti e necessita di molte meno risorse naturali.
Nel 2016 in Italia sono state recuperate ben 48.700 tonnellate di alluminio, il 73,2% delle 66.500 tonnellate immesse nel mercato nello stesso anno: cosìs ono state evitate emissioni inquinanti pari a 369 mila tonnellate di CO2 ed è stata risparmiata energia per oltre 159 mila tonnellate equivalenti petrolio (dati Consorzio Italiano Imballaggi Alluminio – CIAL, 2017).
La totalitàdell’alluminio attualmente prodotto in Italia proviene dal riciclo.
I trend confermano l’Italia al primo posto in Europa con oltre 927 mila tonnellate di rottami riciclati (considerando non soltanto gli imballaggi).
Oggi nel nostro Paese operano dodici fonderie che trattano rottami di alluminio riciclato, con una capacità produttiva globale di circa 808 mila tonnellate di alluminio secondario (2015), un fatturato complessivo di oltre 1,87 miliardi di euro e circa 1.600 lavoratori occupati nel settore.
WWF - Italia Nostra - Gruppo Intervento Giuridico - Ferderparchi - Codacons - Lipu - ISDE- Medici per l’Ambiente
[1]la produzione di un kg. di alluminio di riciclo ha un fabbisogno energetico (0,7 kwh) che equivale solo al 5% di quello di un kg. di metallo prodotto a partire dal minerale (14 kwh).
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