venerdì 23 febbraio 2018

La strana vicenda del “Consorzio Sardo Grano Cappelli”


Gli ultimi decenni, in Sardegna, sono stati caratterizzati da una progressiva deruralizzazione: è diminuita la superficie coltivata ed è aumentata costantemente quella abbandonata che, privata di cura e manutenzione, è più esposta al dissesto idrogeologico, agli incendi e alla speculazione. In trent’anni, dal 1982 al 2010, la Sardegna ha visto scomparire quasi la metà delle aziende agricole e circa un quinto della SAU (Superficie Agricola Utilizzata). L’abbandono delle terre si accompagna allo spopolamento dei piccoli paesi e, in relazione a tale evento, le previsioni per il futuro sono allarmanti: entro il 2050, nella nostra regione, potrebbero sparire 166 dei 377 paesi.
A oggi, nessuna azione messa in campo dalla politica ha favorito il ricambio generazionale agricolo e invertito il fenomeno dell’abbandono dei campi e dei paesi.Anche per i circa 3000 giovani che hanno partecipato (e investito denaro) all’ultimo bando regionale “Aiuti all’avviamento di imprese per i giovani agricoltori” (Programma di Sviluppo Rurale 2014/2020) ancora non si conosce quale sia destino che li attenda, in seguito ai continui rinvii e ritardi nella pubblicazione delle graduatorie e nell’erogazione dei finanziamenti. 

Il quadro è abbastanza fosco: mancano riforme strutturali e infrastrutturali per un settore in agonia, che nonostante tutto continua a resistere e a produrre delle eccellenze; latita la classe politica regionale, incapace di supportare concretamente nuove forme di imprenditoria agricola e di tutelare quelle floride ed esistenti. Tra queste ultime si pone il caso dell’esperienza realizzata dal “Consorzio Sardo Grano Cappelli”. Si tratta di un’eccellenza in ambito agricolo, nata dall’intuizione e dal paziente lavoro di piccoli imprenditori che hanno rilanciato una produzione abbandonata negli anni ’60 e che grazie alle sue caratteristiche - la cultivar Cappelli si presta alla produzione biologica - in questi ultimi anni ha riacquistato importanza e conquistato una nicchia di mercato in grado di valorizzare, anche economicamente, il lavoro degli agricoltori. Questa varietà di grano duro prende il nome dal senatore Raffaele Cappelli, che all’inizio del ‘900 aveva finanziato le ricerche del genetista Nazareno Strampelli. La sua produzione si diffuse in tutto il Sud Italia e Isole, ma fu poi progressivamente abbandonata e sostituita da altre che presentavano una resa maggiore.
Il primo a scommettere sulla rinascita del Cappelli è stato Santino Accalai, titolare della Selet, un’azienda sementiera di Tuili , che circa 30 anni fa recupera da un vecchio contadino i semi di grano Cappelli e con un pazientissimo lavoro riesce a riavviarne la coltivazione grazie alla collaborazione di alcuni agricoltori della zona. La produzione del Cappelli riparte anche in altre regioni d’Italia e in Sardegna un gruppo di agricoltori e trasformatori insieme alla Selet costituiscono il “Consorzio Sardo Grano Cappelli”. 

Il consorzio attiva una vera e propria filiera che si realizza completamente in Sardegna. Sono, infatti, circa un centinaio le aziende agricole e trasformatrici (molini, pastifici, panifici) che fanno parte del consorzio, che rappresenta un modello efficiente di cooperazione e sostegno all’economia locale (in questo caso anche sostenibile), ed attraverso il suo operare contribuisce altresì a valorizzare la terra, contrastandone l’abbandono e tutte le conseguenze che ne derivano.
In tutti questi anni la Selet collabora con il CREA di Foggia (centro ricerca per l’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria in capo al MIPAAF, ministero delle politiche agricole e forestali, che detiene i diritti del seme) dando un contributo indispensabile al mantenimento in purezza della varietà Cappelli e diventa un punto di riferimento anche nel resto dell’ Italia per la distribuzione del grano da semina.
Sembra una bella storia, una di quelle che farebbero ben sperare, lasciando intravedere la possibilità di percorrere una strada alternativa a quella tracciata da un mercato fagocitato da un’agricoltura di tipo intensivo, e invece no, non c’è un lieto fine in questa vicenda.
Nonostante il ruolo fondamentale della Selet nel rilanciare la produzione del Cappelli, nel 2016, a seguito di una manifestazione di interesse indetta dallo stesso CREA, viene assegnata l’esclusività della commercializzazione del Cappelli, per ben 15 anni, alla SIS s.p.a. società sementiera di Bologna, (recentemente in parte acquisita dalla Società Bonifiche Ferraresi s.p.a.), il cui presidente, Mauro Tonello, è anche vicepresidente nazionale di Coldiretti. Questa assegnazione determina, ovviamente, un grave danno alla Selet e al Consorzio Sardo: in sostanza, i frutti di un lavoro trentennale svolto dai sardi vengono raccolti dalla sola SIS, che non aveva avuto alcun ruolo nell’impresa. Non solo! Circa 8000 quintali di grano duro Cappelli da seme, di qualità eccezionale, rischiano di andare persi, perché non più commercializzabili e salta un piano di sviluppo aziendale che in Sardegna avrebbe portato a aumentare del 50% gli ettari coltivati col Cappelli.
La procedura di assegnazione dell’esclusività, a ridosso dell’estate 2016 (il 30 giugno il CREA sul suo portale pubblica la manifestazione di interesse), risulta ancora poco chiara. I dubbi sono rafforzati dal fatto che la richiesta di accesso agli atti da parte di diverse associazioni e aziende, è rimasta disattesa da parte del CREA e, ad oggi, non è dato sapere chi abbia partecipato alla manifestazione e con quali piani di sviluppo aziendali.
Dubbi che hanno fatto e fanno nascere le seguenti domande:
    La SIS ha realmente partecipato al bando? Aveva ed ha a disposizione la quantità di grano da semina sufficiente a coprire le richieste del mercato, condizione imprescindibile per poter presentare un serio piano di sviluppo aziendale?
    E’ giusto, ma soprattutto legittimo (la costituzione del seme Cappelli risale al 1915 ma la prima registrazione presso il Mipaaf, sembrerebbe sia avvenuta nel 1969: il brevetto sarebbe quindi scaduto), che il CREA possa assegnare con un bando l’esclusività di commercializzazione di un grano già in uso da così lungo tempo presso le comunità locali?
    Ha senso impedire, attraverso questa assegnazione, il diritto all’accesso al seme da riproduzione a un libero agricoltore o commerciante ed obbligarlo per contratto a vendere l’intera produzione grano duro, da semina e da macina, alla SIS, impedendone in tal modo la libera commercializzazione?

     Tutto ciò non “profuma” di volontà di controllo da parte della SIS dell’intera filiera di produzione e commercializzazione del Cappelli e finisce con l’instaurare così un pericolosissimo modello di trust sulla nostra agricoltura? Messa di fronte a questa non certo trasparente vicenda, la politica sembra sonnecchiare e non voler pretendere che si faccia chiarezza su quanto accaduto e sul futuro del Cappelli. Eppure, valorizzare un comparto come quello agroalimentare potrebbe essere una delle chiavi di volta dell’intera struttura economica isolana. Il Consorzio rappresenta un piccolo e virtuoso esempio della strada che dovremmo seguire per contrastare
l’abbandono delle terre e lo spopolamento delle zone interne e, di conseguenza, preservare il territorio. Una scelta saggia e lungimirante, anche considerando che la deruralizzazione aumenta il rischio di frane e alluvioni che causano non solo ingenti danni economici ma minacciano addirittura la nostra sicurezza. Nell’azione del governo regionale, dovrebbe essere prioritario puntare sul settore agroalimentare (e in particolare sulle produzioni agricole locali sostenibili e di qualità) per raggiungere la sovranità e autosufficienza alimentare, considerato che siamo una regione che importa circa l’80% di ciò che mangia: nelle nostre tavole, ospedali, mense, alberghi arriva prevalentemente cibo prodotto al di fuori dell’isola. Abbiamo l’ossessione del rilancio dell’economia attraverso l’allungamento della stagione turistica, ma quale modo migliore per raggiungere tale obiettivo se non attraverso l’incentivazione di forme di turismo come quello enogastronomico e rurale, realtà in continua crescita?
Sta emergendo una nuova coscienza alimentare, più attenta non solo alla qualità del cibo ma anche alla sua origine ed a ciò che comporta, per l’ambiente, la sua produzione. Cresce da parte dei viaggiatori, la ricerca di cibo legato all’identità, alla storia e alle tradizioni. Siamo in grado, attualmente, di soddisfare pienamente queste nuove richieste?
Quali sono le proposte della politica per evitare che il progressivo abbandono delle terre e lo spopolamento dei centri rurali trasformino l’interno della Sardegna in un deserto?La politica del “cominciamo il domani” continua a proporre, purtroppo, le ricette del passato inseguendo l’illusorio allungamento della stagione turistica attraverso le equazioni: più mattone = più turisti e più turisti = più trasporti, più servizi.
Con analoga lungimiranza quella stessa politica tenta di far ripartire a tutti i costi (non solo ambientali ma anche economici) le esauste industrie dell’alluminio del Sulcis, proponendo una nuova centrale a carbone e l’ampliamento del bacino dei fanghi rossi!Insomma, non c’è tempo per occuparsi della sorte dei piccoli imprenditori agricoli, e per intraprendere una strada diversa, si preferisce percorrere sempre le stesse scorciatoie. Un vero peccato considerato che abbiamo a disposizione tanta terra fertile e di questa solo il 4% viene coltivata.
La logica conseguenza di tale contraddizione non può essere che la svendita alle multinazionali dell’energia cosiddetta rinnovabile - vedasi il caso emblematico dei progetti delle centrali di S.Quirico e del Medio Campidano - di ingenti estensioni di terre da consumare in maniera irreversibile e la mancata presa di coscienza del fatto che quello che calpestiamo è quello stesso suolo necessario per produrre la nostra primaria ed indispensabile fonte di energia e vita: il cibo!
di Giuseppina Angioni - Consulta Ambiente e Territorio della Sardegna


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