Gli
ultimi decenni, in Sardegna, sono stati caratterizzati da una progressiva
deruralizzazione: è diminuita la superficie coltivata ed è aumentata
costantemente quella abbandonata che, privata di cura e manutenzione, è più
esposta al dissesto idrogeologico, agli incendi e alla speculazione. In
trent’anni, dal 1982 al 2010, la Sardegna ha visto scomparire quasi la metà
delle aziende agricole e circa un quinto della SAU (Superficie Agricola
Utilizzata). L’abbandono delle terre si accompagna allo spopolamento dei
piccoli paesi e, in relazione a tale evento, le previsioni per il futuro sono
allarmanti: entro il 2050, nella nostra regione, potrebbero sparire 166 dei 377
paesi.
A
oggi, nessuna azione messa in campo dalla politica ha favorito il ricambio
generazionale agricolo e invertito il fenomeno dell’abbandono dei campi e dei
paesi.
Anche
per i circa 3000 giovani che hanno partecipato (e investito denaro) all’ultimo
bando regionale “Aiuti all’avviamento di imprese per i giovani agricoltori”
(Programma di Sviluppo Rurale 2014/2020) ancora non si conosce quale sia
destino che li attenda, in seguito ai continui rinvii e ritardi nella
pubblicazione delle graduatorie e nell’erogazione dei finanziamenti.
Il
quadro è abbastanza fosco: mancano riforme strutturali e infrastrutturali per
un settore in agonia, che nonostante tutto continua a resistere e a produrre
delle eccellenze; latita la classe politica regionale, incapace di supportare
concretamente nuove forme di imprenditoria agricola e di tutelare quelle
floride ed esistenti. Tra queste ultime si pone il caso dell’esperienza
realizzata dal “Consorzio Sardo Grano Cappelli”. Si tratta di un’eccellenza in
ambito agricolo, nata dall’intuizione e dal paziente lavoro di piccoli
imprenditori che hanno rilanciato una produzione abbandonata negli anni ’60 e
che grazie alle sue caratteristiche - la cultivar Cappelli si presta alla
produzione biologica - in questi ultimi anni ha riacquistato importanza e
conquistato una nicchia di mercato in grado di valorizzare, anche economicamente,
il lavoro degli agricoltori. Questa varietà di grano duro prende il nome dal
senatore Raffaele Cappelli, che all’inizio del ‘900 aveva finanziato le
ricerche del genetista Nazareno Strampelli. La sua produzione si diffuse in
tutto il Sud Italia e Isole, ma fu poi progressivamente abbandonata e
sostituita da altre che presentavano una resa maggiore.
Il
primo a scommettere sulla rinascita del Cappelli è stato Santino Accalai,
titolare della Selet, un’azienda sementiera di Tuili , che circa 30 anni fa
recupera da un vecchio contadino i semi di grano Cappelli e con un
pazientissimo lavoro riesce a riavviarne la coltivazione grazie alla
collaborazione di alcuni agricoltori della zona. La produzione del Cappelli
riparte anche in altre regioni d’Italia e in Sardegna un gruppo di agricoltori
e trasformatori insieme alla Selet costituiscono il “Consorzio Sardo Grano
Cappelli”.
Il
consorzio attiva una vera e propria filiera che si realizza completamente in
Sardegna. Sono, infatti, circa un centinaio le aziende agricole e
trasformatrici (molini, pastifici, panifici) che fanno parte del consorzio, che
rappresenta un modello efficiente di cooperazione e sostegno all’economia
locale (in questo caso anche sostenibile), ed attraverso il suo operare
contribuisce altresì a valorizzare la terra, contrastandone l’abbandono e tutte
le conseguenze che ne derivano.
In
tutti questi anni la Selet collabora con il CREA di Foggia (centro ricerca per
l’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria in capo al MIPAAF, ministero delle
politiche agricole e forestali, che detiene i diritti del seme) dando un
contributo indispensabile al mantenimento in purezza della varietà Cappelli e
diventa un punto di riferimento anche nel resto dell’ Italia per la
distribuzione del grano da semina.
Sembra
una bella storia, una di quelle che farebbero ben sperare, lasciando
intravedere la possibilità di percorrere una strada alternativa a quella
tracciata da un mercato fagocitato da un’agricoltura di tipo intensivo, e
invece no, non c’è un lieto fine in questa vicenda.
Nonostante
il ruolo fondamentale della Selet nel rilanciare la produzione del Cappelli,
nel 2016, a seguito di una manifestazione di interesse indetta dallo stesso
CREA, viene assegnata l’esclusività della commercializzazione del Cappelli, per
ben 15 anni, alla SIS s.p.a. società sementiera di Bologna, (recentemente in
parte acquisita dalla Società Bonifiche Ferraresi s.p.a.), il cui presidente,
Mauro Tonello, è anche vicepresidente nazionale di Coldiretti. Questa
assegnazione determina, ovviamente, un grave danno alla Selet e al Consorzio
Sardo: in sostanza, i frutti di un lavoro trentennale svolto dai sardi vengono
raccolti dalla sola SIS, che non aveva avuto alcun ruolo nell’impresa. Non
solo! Circa 8000 quintali di grano duro Cappelli da seme, di qualità
eccezionale, rischiano di andare persi, perché non più commercializzabili e
salta un piano di sviluppo aziendale che in Sardegna avrebbe portato a
aumentare del 50% gli ettari coltivati col Cappelli.
La
procedura di assegnazione dell’esclusività, a ridosso dell’estate 2016 (il 30
giugno il CREA sul suo portale pubblica la manifestazione di interesse),
risulta ancora poco chiara. I dubbi sono rafforzati dal fatto che la richiesta
di accesso agli atti da parte di diverse associazioni e aziende, è rimasta
disattesa da parte del CREA e, ad oggi, non è dato sapere chi abbia partecipato
alla manifestazione e con quali piani di sviluppo aziendali.
Dubbi
che hanno fatto e fanno nascere le seguenti domande:
•
La SIS ha realmente partecipato al
bando? Aveva ed ha a disposizione la quantità di grano da
semina sufficiente a coprire le
richieste del mercato, condizione imprescindibile per poter presentare
un serio piano di sviluppo aziendale?
•
E’ giusto, ma soprattutto legittimo (la
costituzione del seme Cappelli risale al 1915 ma la prima
registrazione presso il Mipaaf,
sembrerebbe sia avvenuta nel 1969: il brevetto sarebbe quindi scaduto), che il
CREA possa assegnare con un bando l’esclusività di commercializzazione di un
grano già in uso da così lungo tempo presso le comunità locali?
•
Ha senso impedire, attraverso questa
assegnazione, il diritto all’accesso al seme da riproduzione a un libero
agricoltore o commerciante ed obbligarlo per contratto a vendere l’intera
produzione grano duro, da semina e da macina, alla SIS, impedendone in tal modo
la libera commercializzazione?
l’abbandono
delle terre e lo spopolamento delle zone interne e, di conseguenza, preservare
il territorio. Una scelta saggia e lungimirante, anche considerando che la
deruralizzazione aumenta il rischio di frane e alluvioni che causano non solo
ingenti danni economici ma minacciano addirittura la nostra sicurezza.
Nell’azione del governo regionale, dovrebbe essere prioritario puntare sul
settore agroalimentare (e in particolare sulle produzioni agricole locali
sostenibili e di qualità) per raggiungere la sovranità e autosufficienza
alimentare, considerato che siamo una regione che importa circa l’80% di ciò
che mangia: nelle nostre tavole, ospedali, mense, alberghi arriva
prevalentemente cibo prodotto al di fuori dell’isola. Abbiamo l’ossessione del
rilancio dell’economia attraverso l’allungamento della stagione turistica, ma
quale modo migliore per raggiungere tale obiettivo se non attraverso
l’incentivazione di forme di turismo come quello enogastronomico e rurale,
realtà in continua crescita?
Sta
emergendo una nuova coscienza alimentare, più attenta non solo alla qualità del
cibo ma anche alla sua origine ed a ciò che comporta, per l’ambiente, la sua
produzione. Cresce da parte dei viaggiatori, la ricerca di cibo legato
all’identità, alla storia e alle tradizioni. Siamo in grado, attualmente, di
soddisfare pienamente queste nuove richieste?
Quali
sono le proposte della politica per evitare che il progressivo abbandono delle
terre e lo spopolamento dei centri rurali trasformino l’interno della Sardegna
in un deserto?
La
politica del “cominciamo il domani” continua a proporre, purtroppo, le ricette
del passato inseguendo l’illusorio allungamento della stagione turistica
attraverso le equazioni: più mattone = più turisti e più turisti = più
trasporti, più servizi.
Con
analoga lungimiranza quella stessa politica tenta di far ripartire a tutti i
costi (non solo ambientali ma anche economici) le esauste industrie
dell’alluminio del Sulcis, proponendo una nuova centrale a carbone e
l’ampliamento del bacino dei fanghi rossi!
Insomma, non c’è tempo per occuparsi
della sorte dei piccoli imprenditori agricoli, e per intraprendere una strada
diversa, si preferisce percorrere sempre le stesse scorciatoie. Un vero peccato
considerato che abbiamo a disposizione tanta terra fertile e di questa solo il
4% viene coltivata.
La
logica conseguenza di tale contraddizione non può essere che la svendita alle
multinazionali dell’energia cosiddetta rinnovabile - vedasi il caso emblematico
dei progetti delle centrali di S.Quirico e del Medio Campidano - di ingenti
estensioni di terre da consumare in maniera irreversibile e la mancata presa di
coscienza del fatto che quello che calpestiamo è quello stesso suolo necessario
per produrre la nostra primaria ed indispensabile fonte di energia e vita: il
cibo!
di Giuseppina Angioni - Consulta Ambiente e Territorio della Sardegna
Sull'argomento
ANSA Sardegna - Sardegna alla guerra del grano Cappelli